mercoledì 31 luglio 2013

Il far-West delle case famiglia



 link: http://www.adiantum.it/public/3410-il-far-west-delle-case-famiglia--provvedimenti-frettolosi-e-controlli-assenti.asp
 Vivono lontani dalla propria famiglia, sradicati spesso in tenera età e a tempo indeterminato. È l’esercito dei quasi 30mila bambini e adolescenti che, per effetto di un provvedimento giudiziario, finiscono nelle case di famiglie affidatarie o nelle comunità. Con procedimenti spesso frettolosi e privi di istruttoria, lasciati all’arbitrio di giudici, periti e assistenti sociali.
Secondo l’indagine «Bambine e bambini temporaneamente fuori dalla famiglia di origine » commissionata dal ministero del Welfare all’Istituto degli Innocenti di Firenze, alla fine del 2010 in Italia c’erano 14.528 minori in affidamento familiare e altri 14.781 in comunità residenziale o casa famiglia. Con un aumento del 24% rispetto al 1999. Il rapporto tace sul numero delle strutture, difficilmente mappabile anche per la velocità con cui aprono e chiudono.
Una stima non recente parla di 1.800 centri con alcune Regioni (Emilia Romagna, Lazio, Lombardia e Sicilia) che registrano una concentrazione di 300 strutture. «In Italia non esiste alcun database per monitorare il fenomeno del disagio minorile e delle strutture che ospitano i minori allontanati », dice Vincenza Palmieri, presidente dell’Istituto nazionale di pedagogia familiare e autrice con Antonio Guidi, ex ministro della Famiglia, e l’avvocato Francesco Miraglia del volume “Mai più un bambino” (Armando Editore). «La parola giusta è “reclusi” - continua la pedagogista - perché quella nelle comunità è nella maggioranza dei casi una reclusione ingiustificata, una frattura grave tra il bambino e la famiglia».
Bando alle generalizzazioni, ripetono gli esperti, ricordando che ci sono strutture che funzionano e operatori eccellenti. Però concordano su due evidenze: la mancata presa in considerazione di soluzioni alternative all’allontanamento e l’esistenza di un giro d’affari che fa gola. I dati del ministero parlano chiaro: a fronte di un assegno medio mensile di 404 euro concesso alle famiglie affidatarie, lo Stato eroga alle comunità (che in base al Dpcm 308/2001 dovrebbero essere autorizzate dalle Regioni ma che, in assenza di discipline regionali, continuano a essere autorizzate dai Comuni) la bellezza di 79 euro al giorno a bambino nel caso di retta giornaliera unica. Per le rette differenziate, si va da 71 a 99 euro. Significa che ogni mese per ciascun minore lo Stato paga dai 2.130 ai 2.970 euro. Un tesoretto che forse potrebbe essere utilizzato per lavorare sulle famiglie d’origine, soprattutto quelle in difficoltà economiche sempre più spesso colpite da provvedimenti simili.
Ha molto da raccontare in proposito Francesco Morcavallo, già giudice del Tribunale dei minori di Bologna, protagonista di un duro scontro con i colleghi proprio sul “disinvolto” ricorso agli allontanamenti dei bambini in uso nei tribunali minorili. «I giudici - rileva - dovrebbero decidere sulla base di fatti provati, incompatibili con la permanenza dei bambini nelle proprie famiglie. Fatti che determinano un pericolo conclamato e gravissimo. Invece nella stragrande maggioranza di casi si decide sulla base di giudizi di personalità dei genitori, spesso superficiali, indotti da relazioni delle amministrazioni sociali quando non dalle segnalazioni delle scuole o addirittura dei vigili urbani».
Morcavallo denuncia un difetto anche nelle procedure: «Nel 99% dei casi le motivazioni dei giudici riproducono testualmente la domanda di allontanamento, disponendolo senza istruttoria e fissando la prima udienza solo dopo mesi». È così che i decreti provvisori - che Morcavallo chiama «provvedimenti al buio» - diventano di fatto definitivi. Comunque lunghi, troppo lunghi, per chi si ritrova stritolato in questo meccanismo a pochi anni di vita o in piena adolescenza. «Il business non torna», aggiunge Palmieri. «Si usano soldi pubblici. Ma perché spendere di più e peggio con un risultato non pedagogicamente ottimale? I dubbi vengono ». Alimentati anche dall’assenza di controlli, come osserva Miraglia, esperto di diritto minorile: «Il problema è chi controlla i controllori: nel fitto reticolato di competenze che avvolge il mondo delle strutture per minori non si capisce chi debba vigilare, la Regione, il Comune o alcune commissioni locali istituite proprio per gestire le convenzioni. Io stesso mi sono fatto portavoce di una richiesta di verifica su una comunità e a distanza di mesi ancora sto aspettando una risposta».
È la cronaca, periodicamente, a squarciare il velo di questo far west. Che nasconde abitudini inquietanti. «È prassi comune - racconta Palmieri - sospendere la patria potestà dei genitori quando non vogliono che i figli allontanati dalla famiglia assumano psicofarmaci. I bambini e i ragazzi allontanati sono portatori di un disagio personale che non può e non deve essere trattato come una malattia. Una mamma e un papà non darebbero mai un farmaco a un bambino perché sbatte una porta o rompe un giocattolo. La comunità scientifica si deve interrogare».
Gli esperti concordano: quasi tutti i bambini che oggi finiscono in una struttura potrebbero essere aiutati diversamente. Con soluzioni diurne e con un progetto educativo che riguardi l’intero nucleo familiare. «Il metodo attuale - conclude Palmieri - non risolve alcun problema. Anzi: costruisce non un futuro ma un curriculum di devianza».
L’attenzione è alta. Lo dimostra l’interrogazione presentata il 28 giugno da Roberta Angelilli (Ppe) alla Commissione di Bruxelles, chiamata a chiarire se la situazione italiana viola la Carta dei diritti fondamentali dell’Ue e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. «Allo stato attuale - scrive l’europarlamentare - non si riesce a distinguere gli allontanamenti realmente necessari da quelli che potrebbero essere evitati».

Fonte: IlSole24Ore Sanità del 30 luglio 2013

Altre notizie sul giudice Morcavallo qui al link

giovedì 25 luglio 2013

Giudice Morcavallo: intervista shock




Il giudice Morcavallo entra in Finalmente Liberi, commissione di inchiesta costituita dentro Federcontribuenti sulla questione dei bambini sottratti alle famiglie e ammette: ” tra le strutture private adibite alla ricezione di minorenni ve ne sono molte malfunzionanti o addirittura ‘infernali’; altre (poche) sono gestite con cura e scrupolo. Il problema non si esaurisce nel controllo sulle strutture, ma nell’evitare il meccanismo perverso per cui queste diventino centri di smistamento di bambini che mai avrebbero dovuto essere sottratti alla famiglia”.  Cosa può determinare l’allontanamento di un minore dai propri genitori? L’attuale procedura consente al Tribunale per i Minorenni di sospendere la potestà genitoriale ad uno o entrambi i genitori, dietro la segnalazione di un operatore scolastico o sanitario. Un comportamento o atteggiamento sospetto da parte di un bambino, un disagio economico, può gettare una famiglia nell’inferno. Non solo segni evidenti di abusi sul corpo, non solo confessioni drammatiche. Per vedersi sottrarre un figlio basta intravedere una difficoltà ad interagire con i coetanei, eccessiva aggressività, inappetenza, linguaggio sboccato, tutto quel che può essere interpretato come sintomo di disagio. Difendere i minori è un dovere assoluto, ma l’approssimazione, lo standardizzare una procedura, il trattare i singoli casi come fossero documenti su cui apporre un timbro, significa correre il rischio di commettere errori gravi, veri atti disumani. Durante le separazioni di solito tale segnalazione agli organi preposti è fatta dal genitore affidatario (nel 93% la madre) che, su consiglio di consulenti legali senza scrupoli, utilizza l’apparato giudiziario per far allontanare l’altro genitore dalla vita del figlio. Capita di vedersi sospeso dal ruolo di genitore anche senza una consultazione, d’ufficio. Gli assistenti sociali hanno la totale gestione del minore. Molti hanno perso i contatti per anni con i loro figli, istituzionalizzati in altre città o in luoghi di cui non viene fornita localizzazione. Quando il decreto di sospensione emesso dal tribunale è provvisorio, non consente ai genitori di ricorrere in appello. Si può andare avanti per anni senza alcuna possibilità di contraddittorio e difesa dalle accusa che hanno determinato il provvedimento. Non vengono accolte prove sull’innocenza, non vengono sentiti testimoni: valgono esclusivamente le insindacabili relazioni degli assistenti sociali e le perizie dei consulenti psichiatrici, in linea con le aspettative del magistrato. Federcontribuenti costituisce Finalmente Liberi, una commissione di inchiesta che si occuperà esclusivamente della questione dei bambini sottratti alle famiglie e dati in affidamento.
Intervista al Giudice del tribunale dei minori di Bologna, Francesco Morcavallo.   E’ vero che dietro gli allontanamenti, le perizie e le casa famiglie, spesso, si nasconde uno spietato business? Conosce all’incirca la cifra spesa ogni anno dallo Stato? ”Quasi cinquantamila minori in istituto (termine rispondente alla realtà, in luogo degli pseudonimi ‘comunità‘ e ‘casa-famiglia’) non rispecchiano la realtà del problema della tutela dell’infanzia e dell’adolescenza; tanto più che, per la stragrande maggioranza, gli allontanamenti non sono motivati su fatti certi, ma su impressioni relative al carattere ed alla ‘adeguatezza’ (termine quantomai vuoto) delle persone nello svolgimento dei compiti familiari quotidiani ed in ragione delle difficoltà economiche delle famiglie, in realtà risolvibili mediante la concreta applicazione dei diritti sociali costituzionalmente garantiti (ma effettivamente negati da quelle stesse istituzioni pubbliche e para-amministrative che, in alternativa, perseguono il metodo della sottrazione dei minori dai contesti arbitrariamente qualificati come ‘inadeguati’). Si determinano così l’arbitrio e l’incertezza dei criteri di decisione, utili non soltanto a fini di autoritario controllo sociale, ma anche ad alimentare la circolazione di somme di denaro pubblico per circa due miliardi di euro ogni anno, che tiene vivo il mercato degli affidamenti e -insieme ad ingenti esborsi di denaro privato- quello delle adozioni.” Cosa ha da dirci sulla Pas? ”La così detta ‘p.a.s.’, sindrome immaginaria, i cui inventori e fautori si affrettano a proclamarne oggi a gran voce, in protocolli e linee-guida, l’assoluta inesistenza, ha costituito e costituisce ancora uno strumento utilissimo all’esercizio di quell’arbitrio in nome del quale le vite delle famiglie possono essere controllate ed il novero dei bambini da destinare al mercato degli affidamenti può essere continuamente alimentato. Il meccanismo è semplice e – applicato con la disonestà e l’ignoranza dominanti nell’ambito de quo- efficace: nella famiglia che, secondo l’impostazione autoritario-cattolica, si etichetta come ‘disgregata’, a) la madre è ‘inadeguata’ allo svolgimento del proprio ruolo perché formula accuse forse false nei confronti del padre del bambino; b) il padre è ‘inadeguato’ al svolgimento del proprio ruolo perché forse le accuse della madre sono fondate; c) inter litigatores e in attesa di fatti certi, il bambino è posto in sicurezza (e ‘in circolo di mercato’) mediante l’intrusione dell’accolita di amministratori, mediatori, psicologi ed esperti pronti a fornire (imporre) il ‘sostegno dell’autorità‘, nonché spessissimo mediante la collocazione ‘protetta’, cioè in istituto (privato, ovviamente). ” Secondo lei, quale dovrebbe essere il primo passo di Finalmente Liberi? ” Il primo passo dovrebbe coincidere con quello che è stato proprio anche di altre meritorie iniziative: descrivere la realtà in modo documentato e diffondere la descrizione stessa, anche sollecitando magistrati, avvocati, medici e psicologi affinché si dissocino dal distorto sistema. ” E’ vero o sono leggende, le storie che vedrebbero gravi abusi su minori, all’interno di alcune strutture private? ” Tra le strutture private adibite alla ricezione di minorenni ve ne sono molte malfunzionanti o addirittura ‘infernali’; altre (poche) sono gestite con cura e scrupolo. Il problema non si esaurisce nel controllo sulle strutture, ma nell’evitare il meccanismo perverso per cui queste diventino centri di smistamento di bambini che mai avrebbero dovuto essere sottratti alla famiglia. Che tipo di controlli vengono effettuati su queste strutture? Vero che molte sono di matrice opussiana?   ” I controlli amministrativi sulle strutture predette sono del tutto inattendibili. Molte sono gestite da religiosi, molte altre da laici. In effetti, la contaminazione e l’etero-direzione del sistema giurisdizionale ed amministrativo minorile, soprattutto da parte dell’ ‘Opus Dei’, si attua non soltanto attraverso la gestione di istituti, ma anche e primariamente mediante la pervasiva e massiccia contaminazione della magistratura, specialmente di quella minorile, delle istituzioni di controllo sul sistema della giustizia, con particolare riguardo al C.S.M., nonché dell’amministrazione e del parastato. Del resto, il problema non è peculiare dell’ambito minorile, essendo ben noto che quella stessa organizzazione è assurta dalla fine degli anni Settanta del Novecento alla titolarità del soglio pontificio ed all’egemonia nel sistema creditizio e finanziario, nonché ininterrottamente dal 1992 al controllo del governo italiano ed alla predominanza in tutti gli schieramenti politici nazionali così detti ‘tradizionali’ (anche -ed anzi in special modo- in quelli riciclatisi dalla tradizione marxista all’esito degli eventi del 1989, attraverso la denigrazione e la sostanziale distruzione del partito e del movimento autenticamente socialisti -nell’ambito di metodi per l’acquisizione del potere cui, secondo quanto stanno chiarendo inchieste ormai decennali, avversate dai centri di potere politico e giudiziario, non sono rimasti estranei l’utilizzo di strutture associative occulte, la manipolazione dell’attività dei servizi segreti e l’alleanza con organizzazioni criminali consolidate-) ”. Per ciascuno minore si versa una quota di 100-150 euro al giorno, per un totale complessivo annuale di circa 1000 MILIONI di euro a carico della collettività ( fonte Osservatorio Nazionale Famiglie Separate – Gesef). Si dal varo della legge 285 del 1997 che stanzia annualmente centinaia di miliardi per garantire e tutelare i diritti dell’infanzia, si sono quintuplicati i centri di accoglienza, gestione e trattamento dei disagi minorili. Un’armata fatta di servizi sociali territoriali, migliaia di operatori formati e retribuiti con fondi pubblici, una schiera di avvocati e di psicologi, che non troverebbero altrimenti spazio sul mercato del lavoro professionale già saturo, traggono dalle conseguenze giudiziarie della conflittualità tra ex coniugi e del disagio minorile una inesauribile fonte di prosperoso guadagno. Temiamo che dietro gli enormi interessi economici che ruotano intorno alla “tutela del minore” possano celarsi lobbies di potere, serbatoi di voti, per un business che nulla ha a che vedere con la tutela dei minori.  

Fonte: http://www.federcontribuentinazionale.it/blog/2013/07/17/intervista-shock-al-giudice-morcavallo-sullaffidamento-minorile/

mercoledì 24 luglio 2013

Padri coraggio e spirale del silenzio






«Più un mezzo rende difficile la percezione selettiva, maggiore sarà il suo effetto, in entrambe le direzioni: esso rafforza quando supporta gli atteggiamenti preesistenti; modifica quando li contraddice»
(Noelle-Neumann, La Spirale del Silenzio).



Lo scenario è il seguente.
Si è detto che la tecnica per creare allarmi sociali è collaudata, degna della più sottile ingegneria sociale. Attraverso i media, si gonfiano dati a dismisura, si creano fattoidi, al fine di persuadere l'opinione pubblica, facendo leva sull'empatia generata da notizie selezionate ad hoc.. Si creano neologismi per distogliere l'attenzione dal vero significato delle parole, dare un senso di rassicurazione, tacitare le coscienze sulle contromisure d'urgenza, per porre rimedio all'allarme sociale, vero o presunto.
Intorno ai neologismi, intorno al significato etereo e indefinito da essi racchiuso, si crea il consenso, il consenso dell'opinione pubblica.
Intorno al consenso, si crea un diritto “sui generis” oppure una prassi “sui generis”, la quale, ben prestandosi alla tendenza al conformismo del singolo, costituisce lo stato delle cose.
Si elevano le proteste di alcuni, pochi, operatori o vittime della perpetrata discriminazione, che denunciano, on line, lo sfacelo della prassi giudiziaria applicata al diritto di famiglia.
Silenzio dei media (rare eccezioni, specie durante la festa del S.Natale)


Sul diritto di famiglia, come si spiega il silenzio delle vittime dei 90 mila casi di separazione annui, che , sottoposti alla stessa irragionevole prassi, costituisce la prova provata di una serpeggiante discriminazione di genere?
Sembra apparentemente inspiegabile, a leggere cosa scrive Hanna Arendt, sulla passività degli ebrei di fronte alla discriminazione perpetrata: 

Quelli rimasero di sasso: "È come una fabbrica automatica, come un mulino collegato a una panetteria. A un capo s'infila un ebreo che possiede ancora qualcosa, una fabbrica, un negozio, un conto in banca, e questo percorre l'edificio da uno sportello all'altro, da un ufficio all'altro, e sbuca all'altro capo senza un soldo, senza più nessun diritto, solamente con un passaporto in cui si dice: 'Devi lasciare il paese entro quindici giorni, altrimenti finirai in un campo di concentramento (Hannah Arendt, La banalità del male Feltrinelli, p.53)


In questa passività sembra di vedere i padri di famiglia, spogliati di affetti ed effetti, con una tale banalità da rasentare il cinismo. Tutti passivi nel silenzio.
Silenzio dei giudici. Silenzio dei politici. Silenzio dalla Magistratura, Silenzio dalla Politica. Silenzio dalla Società civile. Perchè il silenzio?



La risposta può essere trovata in una teoria di recente formulazione, la “spirale del silenzio”, che, in una estesa ricerca sul comportamento della opinione pubblica in Germania, Elizabeth Noëlle-Neumann confermò integralmente nel suo The Spiral of Silence: Public Opinion, Our Social Skin
Riassumendo, la teoria della spirale del silenzio si fonda su quattro assunti fondamentali:
  • la società minaccia costantemente gli individui di isolamento;
  • gli individui avvertono la paura dell’isolamento;
  • per paura dell’isolamento essi tentano di monitorare e valutare il clima d’opinione;
  • la valutazione influenza il loro comportamento nella sfera pubblica , condizionandone la libera espressione.



I media hanno un ruolo fondamentale nel pilotare o persuadere l'opinione pubblica, e in particolare:
  1. con la selezione delle notizie, influendo sulla percezione della realtà della pubblica opinione (agenda setting);
  2. con la consonanza: argomentazioni simili appaiono su temi prossimi nella programmazione (vedi programmazione televisiva incentrata su fatti di cronaca nera)
  3. con la cumulatività: le argomentazioni appaiono sui media a ciclo continuo

La tesi centrale della spirale del silenzio è pertanto la seguente: il costante, contemporaneo, ridondante e contorto afflusso di notizie da parte dei media può, col passare del tempo, causare un'incapacità nel pubblico nel selezionare e comprendere i processi di percezione e di influenza dei media; la realtà dei fatti rimane nell'oblio.
In questa situazione la persona singola ha il timore costante di essere una minoranza rispetto all'opinione pubblica generale. Per non rimanere isolata, la persona anche se con un'idea diversa rispetto alla massa non la mostra e cerca di conformarsi con il resto dell'opinione generale.
La spirale si autoalimenta. Maggiore è la paura del singolo a non denunciare la frode propagandistica di cui è spettatore o vittima (o potenziale artefice), maggiore è la probabilità che il silenzio perduri e si diffonda, anche tra coloro che vorrebbero essere “non allineati”.

Nella prefazione alla Neumann (La spirale del silenzio. Per una teoria dell'opinione pubblica Ed. Nautilus) Cristante sottolinea il paradosso che nonostante in democrazia si dia per acquisita la libertà di espressione, ancora esistono sanzioni, sulla base di «una minaccia alla reputazione che fa parte di leggi non scritte, ma non per questo meno evidenti». L’opinione pubblica svolge una funzione di integrazione della società: «sotto la minaccia di revoca costringe i governi a rispettarla, e lo stesso fa con gli individui paventando l’isolamento. Il risultato è in entrambi i casi l’integrazione, il rafforzamento della coesione e con esso la capacità di agire e decidere...ma la base di tale integrazione, che consente una direzione motrice della società, è la paura».

La Noelle-Neumann batte ripetutamente sul tasto del controllo sociale, e, in particolare, sul fatto che l’espressione umana sia limitata dall’appartenenza a un insieme di relazioni sociali che giudicano i comportamenti del singolo. E questo perché la paura dell’isolamento si fonda sulla natura sociale di ognuno ed è «evidentemente radicata come un istinto».

Dice, infatti, la Noelle-Neumann che «l’opinione pubblica è un’opinione in settori cui viene attribuita una certa importanza che può essere esternata pubblicamente senza timore di incorrere in sanzioni e sulla quale può basarsi l’agire pubblico. Quando il timore di incorrere in sanzioni è invece presente, l’opinione pubblica viene sostituita da un progressivo isolamento, la spirale. Essa avvolge con il silenzio la percezione del divenire minoranza della propria opinione» (Cristante, intr. alla Spirale del Silenzio).

Questo meccanismo può innescarsi grazie al fatto che gli individui raccolgono, da fonti diverse, informazioni utili al fine di valutare l’orientamento del clima d’opinione, sfruttando una capacità che E. Noelle-Neumann definisce come competenza quasi statistica. Essa è il risultato di una combinazione tra l’adattamento all’ambiente circostante e l’ambiente virtuale televisivo. In tal modo: «Le persone hanno l’abilità di stimare quanto sono forti le diverse posizioni all’interno del dibattito pubblico» (Noelle-Neumann, Spirale del Silenzio).
Le potenziali vittime, sentendo impossibile un dibattito pulito, finiscono per preferire raccogliersi in silenzio. In questo medesimo istante diventa politicamente defunto. Il male ha vinto una battaglia in più.

Tuttavia la società cambia, cambiano i climi di opinione, vecchie spirali del silenzio si spezzano e se ne creano di nuove (…). La studiosa parla di “sfidanti dell'opinione pubblica”. Sono outsider, avanguardisti eretici, missionari. In una sola espressione: “minoranza di opinione”. Alcuni sono chiamati “hard-core”. Zoccolo duro di resistenti, irriducibili e indifferenti alle sanzioni dell'opinione pubblica” (…) individui che prendono la parola “nonostante”.

Nel diritto di famiglia, la verità è nelle mani di tanti padri coraggio.













Educazione al genere. Per tutti.




Nelle scuole, progetti mirati educano ragazze e ragazzi a“rompere gli stereotipi che riguardano il ruolo sociale, la rappresentazione e il significato dell’essere donne e uomini”. Il 12 giugno. sul sito www.ilfattoquotidiano.it, appariva l’articolo Educazione al genere, la mappa delle “buone pratiche” nelle scuole italiane (di Stefania Prati).
l’incipit suscita alcune riflessioni: "Nelle scuole italiane ci sono buone pratiche per educare gli studenti e le studentesse al“genere”. Con questo termine si intendono tutte le lezioni e gli incontri che cercano di rompere gli stereotipi che riguardano il ruolo sociale, la rappresentazione e il significato dell’essere donne e uomini. Questi stereotipi – secondo i quali, ad esempio, le donne sarebbero destinate a svolgere certe mansioni, come essere dedite alla cura dei figli, degli anziani e della casa, e gli uomini invece fatti per il lavoro che produce reddito e la carriera - sono contenuti anche nei libri di testo. Lo dimostrata Irene Biemmi, ricercatrice universitaria, che ha analizzato dieci manuali per le scuole primarie e ha condensato il suo lavoro nel libro “Educazione sessista, stereotipi di genere nei libri delle elementari”.
Davvero ottime iniziative. L’innalzamento del muro divisorio tra ruoli maschili e femminili rappresenta un passo indietro di secoli nella storia della civiltà.
Eppure accade ogni giorno, in ogni città, in ogni tribunale, e nessuno grida allo scandalo. All’uomo sposato viene benevolmente concesso di occuparsi dei figli, ma il messaggio subliminale contenuto in decenni di sentenze è “sia chiaro: in caso di separazione il tuo ruolo torna quello atavico del reperimento di risorse, educare i figli non è compito maschile”.
Allo stesso modo, alla donna sposata viene benevolmente concesso di cercare una realizzazione nel mondo del lavoro, ma il messaggio subliminale di centomila sentenze è “sia chiaro: in caso di separazione il tuo ruolo torna quello atavico di gestione della prole, l’autonomia non è privilegio femminile”.
La costrizione giudiziaria nel ruolo di fattrice e balia, un vincolo dal quale la donna ha impiegato secoli ad emanciparsi, eppure sembra che ancora oggi in Tribunale non se ne siano accorti.
È deciso che dei figli se ne debbano occupare le donne, punto. Al massimo lasciando qualche briciola agli uomini, ma decreti e sentenze non lasciano spazio ad interpretazioni: una larga prevalenza femminile nei compiti di cura della prole è inderogabile. Allo stesso modo è deciso che le risorse le procurino gli uomini, punto. Al massimo lasciando qualche contentino alle donne, ma la casistica consolidata negli anni dice che è inderogabile una larga prevalenza maschile nel reperimento di risorse.
Ovviamente vi sono delle eccezioni: donne che si disinteressano dell’autonomia lavorativa e uomini che si disinteressano dei figli; ma gli ostacoli vengono innalzati per tutte e tutti, anche per le madri che vorrebbero non dipendere dall’ex marito ed i padri che vorrebbero continuare ad occuparsi dei figli.
Il ruolo maschile stereotipato è quello di garantire il sostentamento della collettività, come quando usciva con la clava ad ammazzare la preda mentre la donna rimaneva nella grotta a cullare il pupo e controllare che il fuoco non si spegnesse. Come quando la donna andava al fiume a prendere l’acqua - ma sempre col pupo in braccio - e l’uomo difendeva i confini del clan dagli assalti di altri clan. Sembra una becera restaurazione dei confini di Genere: il tribunale stabilisce compiti femminili e compiti maschili, nessuno si azzardi a sconfinare. Chi prova a chiedere altro è conflittuale, non si piega alle regole del Sistema.
È lecito chiedersi come mai le numerose associazioni impegnate nella lunga serie di progetti in tutta Italia, abbiano dimenticato di riportare a scuola i magistrati. O perlomeno alcuni magistrati. Quelli cioè che si accaniscono nel prendere provvedimenti arcaici, dai quali trasuda quanto di più discriminatorio ed antifemminista possa esistere oggi in Italia.
Il riferimento è ad una larga parte di quei giudici che si occupano di separazioni e divorzi, terreno fertile per una discriminazione di Genere in atto da decenni ma che, curiosamente, nessuno nota. La casistica delle separazioni infatti, nonostante la riforma del 2006, continua a testimoniare un quadro deprimente per l’ottica femminile.
La prassi giurisprudenziale costruisce una discriminazione basata sul Genere e la cementa ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, perpetuando un percorso culturale diametralmente opposto a ciò che viene proposto nelle scuole come percorso di rieducazione: “stereotipi secondo i quali, ad esempio, le donne sarebbero destinate a svolgere certe mansioni, come essere dedite alla cura dei figli, degli anziani e della casa, e gli uomini invece fatti per il lavoro che produce reddito”.
Gli stessi stereotipi che devono essere distrutti nelle scuole poi tornano prepotentemente ad inquinare ogni minimo anfratto della Culla del Diritto.
Non si pronuncia l’UDI contro la genuflessione giudiziaria al paradigma di Genere? La divisione in compiti di Genere o è una discriminazione sempre o non lo è mai.
O è, o non è.
 
http://www.adiantum.it/public/3112-fas-e-la-convergenza-con-il-pensiero-femminista--possibile-un-percorso-comune--.asp

martedì 23 luglio 2013

Aborto, omofobia e femminicidio.




 Aborto, omofobia e femminicidio ? - di Armando Ermini - Associazione di Associazioni Nazionali per la tutela dei Minori


La tecnica è collaudata. In una prima fase, col fattivo contributo di tutti o quasi i media, si gonfiano i dati fino all’inverosimile o si enfatizzano i fatti, per stimolare emozionalità nell’opinione pubblica e creare allarme sociale. Contemporaneamente si creano neologismi “tranquillizzanti” o, secondo gli obbiettivi che ci si propone di raggiungere, “allarmanti”.
Preparato così il terreno, nella fase successiva si passa all’approvazione con largo consenso parlamentare e popolare di leggi discutibilissime sotto il profilo morale ed etico e costituzionalmente inammissibili.
L’obbiettivo è raggiunto. Una volta che ci sia la codifica legislativa, il tempo stempererà le obiezioni ed anche gran parte degli oppositori si abitueranno a considerare normali e giuste le norme un tempo condannate.
Non occorre andare troppo lontano nel tempo, ai regimi totalitari che quelle tecniche hanno abbondantemente usato e che non vorremmo vedere mai più, per dimostrare che è così. Basta osservare il passato prossimo ed il presente del nostro e di altri paesi democratici.
a) La legge 194. Prima della sua approvazione, circolavano sulla stampa ed anche in parlamento cifre inverosimili (uno, due, perfino 3 milioni all’anno) sul numero di aborti clandestini e sulle donne morte a causa di questi (venticinquemila). Quelle cifre non avrebbero retto al minimo vaglio critico, eppure furono usate cinicamente per fare accettare all’opinione pubblica la legge che avrebbe legalizzato l’aborto.
Lo si spiega in modo molto documentato in: http://www.uccronline.it/2013/06/18/legge-194-la-grande-menzogna-degli-aborti-clandestini/
Ma non basta. Affinché quella legge fosse accettata, occorreva anche dissimularne il reale significato. Così l’aborto, che è la soppressione di una vita innocente, fu chiamato interruzione volontaria della gravidanza. E, in un crescendo di manipolazioni linguistiche, le leggi abortive furono (e sono) chiamate dai grandi organismi internazionali leggi sulla salute riproduttiva delle donne o addirittura di tutela sociale della maternità consapevole, mentre al bambino non ancora nato è stata tolta la dignità di essere umano chiamandolo prodotto del concepimento.
Infine, allargando il discorso dall’aborto in senso classico alle altre problematiche nate con il progresso delle tecnologie mediche, le pillole abortive vengono definite contraccettivi d’emergenza, mentre la fabbricazione artificiale di esseri umani destinati a non conoscere le proprie origini paterne o non sapere se la loro madre è quella che ha prestato l’utero o quella che ha donato il gamete, viene chiamata procreazione medicalmente assistita.
b) L’omofobia. Utilizzando lo sdegno, ovviamente giusto, per le discriminazioni contro gli omosessuali, sotto questa categoria vengono fatte ricadere tutte le obiezioni all’equiparazione giuridica delle unioni omosessuali col matrimonio tradizionalmente inteso, e conseguentemente alle adozioni da parte di coppie dello stesso sesso.
In realtà si vuole ottenere uno scopo ancora più ampio e dalle incalcolabili conseguenze sul piano antropologico. Si vuole negare cioè la differenza sessuale fra uomo e donna, data in natura ma ritenuta solo un costrutto culturale, e attraverso ciò mutare profondamente il concetto di famiglia naturale. Non più l’unione potenzialmente feconda fra un uomo e una donna, e per questo socialmente riconosciuta e tutelata, ma una qualsiasi unione fra due persone dipendente solo dalla loro volontà (e perché non tre, ad esempio?).
Così i termini marito e moglie, o padre e madre, perdono ogni significato specifico e sono stemperati nelle definizioni grottesche di partner oppure genitore A e B, come è già accaduto in Spagna. Inutile aggiungere che della salute psichica dei bambini nessuno si preoccupa minimamente e che, proprio per l’allargamento indiscriminato del concetto di omofobia, il nuovo reato che si vorrebbe introdurre costituirebbe un vero e proprio attentato alla libertà di pensiero.
Eppure sarà così. Bel risultato davvero per chi si proclama democratico.
c) Il femminicidio. È un termine coniato da molto tempo per designare l’uccisione di una donna, ma entrato nel lessico corrente dal 1992, quando la criminologa Diana Russel lo definì come una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna «perché donna». Ormai ogni giorno lo ascoltiamo dai telegiornali e lo leggiamo sulla stampa, perché in pratica ogni omicidio di donna viene catalogato sotto questa definizione, sostenendo che la violenza contro le donne è arrivata a un punto insostenibile.
La campagna partì alcuni anni orsono allorché i media iniziarono a diffondere la notizia che la violenza sarebbe stata la prima causa di morte per le donne da 16 a 44 anni d’età, più del cancro e degli incidenti stradali. Fu diffusa da Amnesty International, ed in Italia fu usata ripetutamente in parlamento dall’allora ministro per le pari opportunità Barbara Pollastrini. Si tratta, sarebbe bastato il buon senso e una semplice verifica su internet, di un falso clamoroso che però è stato ripetuto all’infinito e lo è ancora ancora oggi, nonostante la stessa Amnesty sia stata costretta a fare marcia indietro, sia pure a denti stretti. Intanto però il danno era fatto e nessun organo di stampa e nessuna TV che aveva diffuso quella bugia l’ha mai smentita.
La parola femminicidio evoca immediatamente quella di genocidio, che secondo una definizione ovunque accettata viene inteso come ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. In tale categoria sono compresi, fra gli altri: “L’uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale”.
Se ai gruppi citati si aggiunge quello composto dalle donne, il gioco è fatto.
L’immaginario collettivo sarà portato a pensare il proprio Paese come un immenso lager in cui un gran numero di donne, solo perché donne, vengono quotidianamente uccise, stuprate, violentate etc. etc. È verosimile, anche semplicemente alla luce dell’esperienza quotidiana di ciascuno di noi?
Ovviamente no, ed infatti, lo dicono le statistiche Onu, il nostro è uno dei Paesi più sicuri per le donne, molto di più, ad esempio dell’emancipatissima Finlandia, o della Svizzera. Eppure si continua imperterriti a parlare di femminicidio di fronte a 120 omicidi femminili (dati ufficiali 2012) su una popolazione di circa trentamilioni, nonostante gli omicidi maschili siano tre volte superiori per numero, nonostante che non tutte quelle donne uccise lo siano state per mano maschile, nonostante sia impossibile far risalire tutte quelle morti ad un odio di genere indiscriminato.
Il femminicidio, dunque, non esiste come fenomeno socialmente allarmante. È perfino oltraggioso dover ripetere, per tentare di evitare le accuse di complicità latente o di negazionismo, che ogni omicidio è esecrabile a qualunque genere appartengano la vittima e l’autore, e che alle vittime deve essere data piena solidarietà. Ma, lo dimostrano i numeri, non si tratta comunque di femminicidio.
Anche noi vorremmo che non ci fossero assassinii (nemmeno di uomini o di bambini, ovviamente), anche noi vorremmo che quei maschi che agiscono la violenza sul più debole anziché difenderlo, e che per questo dimostrano una preoccupante carenza di virilità, sapessero gestire in altro modo le situazioni che vivono, anche quando sono obiettivamente difficili ed esasperanti. Anche noi vorremmo che non ci fossero più infanticidi o aborti, ma sappiamo realisticamente che è impossibile per il semplice motivo che l’uomo è imperfetto.
Qual è, allora, lo scopo di questa martellante campagna?
È duplice. Da un lato instillare la convinzione che la violenza in quanto tale sia maschile e che sia principalmente rivolta contro le donne per opprimerle, e dall’altra, sull’onda del primo punto, preparare l’opinione pubblica ad una legge di incalcolabile gravità che, come già accaduto in Spagna, preveda pene maggiori per identici delitti quando la vittima è una donna. Alcuni disegni di legge in tal senso sono già in cantiere.
È immediatamente evidente che si tratterebbe di un insopportabile vulnus alla democrazia, nonché di un provvedimento palesemente incostituzionale in quanto violerebbe il principio di uguaglianza di ogni cittadino di fronte alla legge. Ma questo sarebbe ancora il male minore. La cosa più grave è sul piano simbolico prima ancora che legislativo. Si sancirebbe cioè che la vita maschile ha un valore, e una dignità, inferiori a quella femminile e quindi è maggiormente spendibile o sacrificabile. O viceversa, ma è lo stesso, che quella femminile vale di più di quella maschile e che per questo, quando subisce un attentato, il colpevole deve essere punito con maggior severità.
Si tratterebbe di un regresso culturale di enorme portata che sul piano simbolico, e nel tempo anche concreto, riporterebbe l’umanità indietro di millenni. Sul piano storico fu, si noti, proprio il tanto esecrato patriarcato a superare il diritto di sangue di origine materna sancendo il principio che la norma deve valere erga omnes. In realtà nelle società precristiane quel sacrosanto principio non fu applicato integralmente perché esisteva una distinzione fra essere umano ed essere umano.
Ai tempi dell’antichità romana, ad esempio, esisteva la figura dell’homo sacer, una non persona esclusa dagli omnes, e che di conseguenza poteva essere ucciso senza che l’atto fosse qualificato come omicidio e punito. Solo il Cristianesimo intese rompere questa insopportabile discriminazione sancendo la piena uguaglianza di ogni essere umano, e solo i regimi totalitari moderni hanno inteso invece spogliare alcuni uomini appartenenti a determinati gruppi razziali o sociali della loro identità di persona, premessa indispensabile affinché qualsiasi atto nei loro confronti non fosse catalogato come delitto. Non dico, ovviamente, che sia questo il caso, ma soltanto che, una volta rotto un principio simbolico, tutto diventa possibile. Dipenderà solo dai rapporti di forza che di volta in volta si instaureranno.
D’altronde non è neanche la prima volta che accade o che accadrebbe, perché come abbiamo già argomentato a proposito dell’aborto, quel principio è già stato aggirato derubricando il bambino non nato a prodotto del concepimento, quindi eliminabile a piacere in funzione delle decisioni insindacabili del soggetto a cui è stato affidato il potere decisionale.
Chiudo con un’ultima ma fondamentale annotazione. Quanto sopra non implica affatto una concezione piattamente sindacale dei rapporti fra uomini e donne, né invoca una parità ed una simmetria assolute nei comportamenti maschili e femminili. Da sempre, anche se ormai lo si disconosce, gli uomini si sono sacrificati per le donne o al loro posto, in guerra, sul lavoro o per salvarle quando si sono trovate in pericolo. È l’essenza del dono maschile, perso il quale gli uomini perderebbero se stessi, e con se stessi tutta l’umanità. Quel dono, per poter essere tale, presuppone la libertà di donarsi con un atto di volontà o semplicemente d’istinto. Ma la libertà, a sua volta, è fondata sull’uguaglianza simbolica.
Ritenersi invece spendibili o sacrificabili perché la propria vita vale di meno di quella altrui, sarebbe l’opposto, e quell’atto donativo scadrebbe ad omaggio dovuto a chi si ritiene superiore, perdendo con ciò ogni valore intrinseco ed ogni senso.
E' questo che si vuole davvero? 


Fonte: http://maschiselvaticiblog.wordpress.com/2013/06/30/aborto-omofobia-e-femminicidio/

mercoledì 17 luglio 2013

S.C.U.M.: un manifesto alla discriminazione




Fonte: http://corpografiasessuale.wordpress.com/2012/05/01/manifesto-s-c-u-m-13/



s.c.u.m- manifesto per l’eliminazione del maschio e’ l’opera piú famosa scritta da Valerie Solanas, vagabonda, femminista e rivoluzionaria. Il libro venne pubblicato per la prima volta nel 1968. Attacca senza peli sulla lingua le basi dell’America alla fine del XX secolo e questiona i valori difesi per la classe media:  borghese, bianca e eterosessuale. Un testo essenziale della creazione femminista, delirante quanto geniale che ha come principale obiettivo quello di combattere una società in cui l’uomo e la donna non hanno gli stessi diritti.
ll manifesto scritto da Valerie Solanas si apre con una dichiarazione che invita le donne a ribellarsi alla società in cui vivono, seguono una serie di consigli sociali e pratici su come eliminare di fatto la nascita degli uomini, affidandosi, per esempio, alla ricerca genetica e alla medicina. Usando uno stile provocatorio, tagliente, diretto e privo di formalismi, Valerie Solanas dichiata apertamente guerra agli uomini e a una società che sembra avere il macho come suo principale rappresentante e modello.
All’interno del manifesto, sono presenti, inoltre, spiegazioni e argomentazioni che dovrebbero convincere della correttezza dei suoi ideali; argomentazioni scritte con un linguaggio “da strada”, riconosciuto da lei stessa successivamente, come una tecnica letteraria ironica e satirica utile a sollevare il dibattito su determinati argomenti.
Il manifesto scum e’ la voce di Valerie, una creatura persa e ferita con una capacitá di espressione selvaggia e senza indulgenza verso il mondo, una voce che si situa piú in la della ragione e della decenza borghese. I suoi sentimenti sono retti da una rabbia atroce. Una rabbia che non tutte le donne hanno il coraggio di descrivire con tanto furore.

bio-corpografia di Valerie
Nasce a Ventnor City (New Jersey) il 9 aprile del 1936.
Vittima di abusi sessuali da parte di suo padre durante tutta l’infanzia. I genitori divorziarono negli anni 40, ed all’etá di 15 anni Valerie inizia a vivere per strada. Nonostante questo, termina gli studi liceali e si iscrive alla facoltá di psicologia dell’Universitá del Maryland. Nel 1953 nasce suo figlio David che viene dato in adozione.
Il suo lavoro piú conosciuto e’ il Manifesto Scum, un feroce e rivoluzionario attacco alla cultura patriarcale, che vendeva lei stessa per strada alla gente:  25 cent per le donne e 50/100 cent per gli uomini.
Valerie va a New York nel Greenwich Village (1966), dove scrive il dramma teatrale “Up your ass”, la storia di una prostituta e un vagabondo. Nel 1967 incontra Andy Warhol fuori dal suo studio, la Factory e gli propone di produrre il suo dramma. Andy intrigato dal titolo lo prende e promette di visionarlo. Warhol trova il testo di Valerie talmente pornografico che pensa che si tratti di una trappola della polizia, cosí decide di non ricontattare la Solanas a proposito del testo. Valerie comincia a perdere la pazienza e a telefonare ossessivamente a Warhol, perché rivuole indietro il suo testo, visto che e’ la unica copia esistente. Andy ammette di averlo perso e lei pretende dei soldi come “pagamento”. Andy ignora queste richieste peró decide di proporle una parte in uno dei suoi film, forse come compensazione:
I, A man (1968-1969)
Lei e l’uomo cui fa riferimento il titolo (interpretato da Tom Backer) discutono nel corridoio di un palazzo sulla possibilitá di andare nel suo appartamento….
Il 3 giugno 1968, Valerie Solanas attenta, sparando diversi colpi di pistola, alla vita di Andy Warhol, del suo critico d’arte e del suo curatore e compagno di allora Mario Amaya, nell’atrio dello studio Factory. Valerie fugge, subito dopo, dalla scena del crimine.
Andy Warhol viene ferito gravemente e sopravvive a malapena, la vicenda ebbe un effetto traumatico su di lui e non si risolse mai del tutto.
La sera stessa, Solanas si costituisce alla polizia e viene arrestata per il tentato omicidio e altri crimini. Giustifica il fatto e si difende dalle accuse con l’ufficiale di polizia asserendo che Warhol aveva “troppo controllo” su di lei e che stava progettando di rubarle il lavoro. Solanas non solo fracassa nel suo intento di assassinato, visto che sceglie il peggior momento storico per metterlo in pratica. Un paio di mesi prima Martin Luther King era stato assassinato in Memphis e, due giorni dopo che Valerie spara a Andy, il candidato democrata alla presidenza, Robert Kennedy viene ucciso….la competenza e’ dura nel mercato di sangue americano. (1)
Valerie viene spedita immediatamente all’unitá psichiatrica del Hospital Bellevue. Il giorno 13 di giugno si presenta in tribunale davanti al giudice di stato Thomas Dickens ed e’ rappresentata legalmente dalla femminista radicale Florynce Kennedy, che parla di lei come “una delle piú importanti portavoci del movimento femminista” (2). Nel 1969 la sentenza é di 3 anni di carcere. Messa in libertá nel 1971, viene arrestata due mesi dopo per inviare carte minatorie e perseguitare a varie persone, tra cui Andy. Durante la seconda metá degli anni 70 entra ed esce da varie istituzioni psichiatriche.
La figura di questa donna e’ controversa, vista la scomoditá del personaggio, e’ stata anche definita femminista criminale, peró questo non toglie che abbia prodotto uno dei testi piú iconoclasti e incendiari del femminismo stesso. La sua figura e’ stata a lungo pressoché cancellata in quanto facilmente strumentabile come stereotipo della “lesbica pazza” o della “femminista che odia gli uomini”. Anche per questo Valerie occupa nella storia popolare degli States il luogo della persona che sparó a Andy Warhol e non occupa la posizione che le corrisponde cioé di femminista radicale degli anni 60, autrice di un manifesto politico-satirico con il titolo di Manifesto scum. (1)
Il 26 aprile del 1988, muore di broncopolmonite a l’etá di 52 anni, sola e senza soldi. Secondo diverse fonti era tossicodipendente e continuava a prostituirsi per pagarsi la droga. Il suo corpo e’ stato sepellito nel cimitero della Saint Mary’s Catholic Church, VIrginia EEUU. Cosí finisce la vita di questa donna che molti hanno chiamato “pazza”;  peró solitamente i geni non sono sempre stati chiamati pazzi? (3) Era davvero pazza o a radice di tutto quello che aveva dovuto soffrire e sopportare aveva deciso di osare cosí tanto, e di parlare senza censura di tutto quello che la logorava? Una cosa e’ certa ha messo in pratica tutto quello che ha scritto nel suo manifesto.


FRAMMENTI TESTO
Non e’ facilmente comprensibile anche se scritto con chiarezza, perché unisce l’odio verso gli uomini (e non solo!), una visione politica estrema, peró no senza senso e una concezione della vita che pone in prima linea l’amore e l’altruismo……insomma un gioiello grezzo tutto da leggere, scoprire e reinterpretare…..
Inizia cosí:

In questa societá, per bene che ci vada, la vita e’ una noia sconfinata. In questa societá nulla, assolutamente nulla riguarda le donne. Dunque a tutte le donne che non hanno ne paura delle responsabilitá né delle emozioni sconvolgenti non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, instituire l’automazione totale e distruggere il sesso maschile. Il maschio e’ completamente egocentrico, prigioniero di se stesso, incapace di osmosi con le cose, d’identificazione con gli altri, di amore, di amicizia, di affetto, di tenerezza. E’ un animale totalemente isolato, incapace di relazioni con chiunque. Le sue risposte sono del tutto viscerali, mai celebrali. La sua intelligenza non é che uno strumento al servizio dei suoi impulsi e bisogni. Non conosce né  passione della mente né scambi intelletuali. Riesce a collegarsi soltanto alle proprie sensazioni fisiche. E’ un morto vivente, una massa inerte, incapace di dare o ricevere piacere o felicitá. Di conseguenza il maschio e’, nella migliore delle ipotesi, una noia sconfinata, una bolla d’aria inoffensiva, mentre l’essere affascinanti implica sapersi concentrare sugli altri.”
Il sesso e’ il rifugio dei poveri di mente. Piú la donna e’ povera di mente, piú e’ radicale il suo incastro nella cultura maschile. Insomma, piú e’ attraente, piú e’ portata all’attivitá sessuale. Le belle donne della nostra “societá” sono sempre in calore, smaniano. Ma, essendo stupendamente e stupidamente belle, e’ chiaro che non si abbassano a scopare – sarebbe volgare – fanno invece l’”amore”, cioé usano il corpo per comunicare e per stabilire rapporti sensuali. Le piú letterarie si mettono al diapason pulsionale dell’Eros e si godono l’Armonia Universale. Le religiose entrano in comunione spirituale con la Divina Sensualitá. Le mistiche affondano nel Principio Erotico e sposano il Cosmo. Quelle carburate all’acido si sintonizzano sulle loro cellule erotiche.”
” Come gli essere umani hanno prioritá di vita sui cani, in virtú della loro alta evoluzione e della coscenza superiore, cosí le donne hanno prioritá di vita sugli uomini. L’eliminazione dei maschi e’ quindi un atto giusto e legittimo, un atto altamente benefico per le donne ed anche, in fondo, un atto di pietá.”
“Se tutte le donne lasciassero semplicemente gli uomini, si rifiutassero di avere a che fare con loro – per sempre e senza eccezione alcuna- il governo e l’economia nazionale si sfascerebbero. Anche senza lasciare gli uomini, le donne che sono coscienti della portata della loro superioritá e del loro potere sugli uomini, potrebbero arrivare al controllo totale in poche settimane, potrebbero sottomettere totalmente i maschi. In una societá sana il maschio arrancherebbe. obbediente, dietro la femmina. In fondo é docile e si lascia guidare facilmente da qualsiasi femmina che osi farlo. Il maschio, infati, muore dal desiderio di obbedire alla femmina, di sentirsi protetto dalla Mamma, di abbandonarsi alle sue cure. Ma la nostra non puó essere chiamata una societá sana e la maggior parte delle donne non ha la piú pallida idea del suo reale rapporto di forza con l’uomo.”


Ringrazio a Mery per regalarmi questo libro e applaudo il coraggio di Valerie e la sua voglia di svegliarci da questo letargo per combattere a questo padre, uomo, sistema che ci frega con stratagemmi emozionali e sentimenti di colpa.
Risorse:
(1) Manifiesto Scum, Edición Comentada
(2) http://it.wikipedia.org/wiki/Valerie_Solanas
(3) http://www.ciudaddemujeres.com/articulos/article.php3?id_article=270/
Per vedere il film “I shot Andy Warhol”:



Aforismi di Solanas

In questa società la vita, nel migliore dei casi, è una noia sconfinata e nulla riguarda le donne: dunque, alle donne responsabili, civilmente impegnate e in cerca di emozioni sconvolgenti, non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l'automazione globale e distruggere il sesso maschile.

 

Definire l'uomo una bestia è adularlo: il maschio è una macchina, un vibratore ambulante.

 

Le donne non hanno invidia del pene, sono gli uomini ad invidiare la fica.

 

Il maschio ha un tocco da re Mida, al negativo: tutto ciò che tocca si trasforma in merda.

 

La funzione della femmina è quella di stabilire rapporti, godere, amare ed essere se stessa, e questo la rende insostituibile. La funzione del maschio è produrre sperma, e oggi abbiamo banche di sperma.

 

Per i tradizionalisti l'unità base della "società" è la famiglia, per gli "hippies" è la tribù; ma per nessuno è l'individuo.

 

Il sesso è il rifugio dei poveri di mente.

 

Eliminate gli uomini e le donne prenderanno forma.

In USA come in Italia, discriminazione di genere









Fonte: http://antimisandry.com/articles/men-new-second-class-citizens-270.html?utm_source=twitterfeed&utm_medium=twitter


Nel novembre dello scorso anno, ho scritto un articolo per Fox News chiamato The War on Men (che ho successivamente ampliato per un eBook). Per farla breve, mi sono concentrata su uno degli effetti di questa guerra: la mancanza di uomini da marito. Ma c'è molto di più da dire, ad oggi. La verità è che gli uomini sono diventati cittadini di seconda classe.

La prova più evidente è la demonizzazione del maschio nei media. E’ dilagante e inconfutabile. Dalla sit-com e spot pubblicitari che ritraggono padre come un idiota a notizie tendenziose sullo stato degli uomini americani, i maschi sono azzannati da sinistra e da destra. E questo è solo l'inizio.

La guerra al maschile inizia in realtà a scuola, dove i ragazzi sono in netto svantaggio. Non solo i programmi di studio incentrati sugli interessi delle ragazze ', piuttosto che dei ragazzi,' l'enfasi in questi gradi scolastici  è starsene seduti a una scrivania.

Inoltre, molte scuole hanno eliminato la ricreazione. Tale ambiente è malsano per i ragazzi, perché sono attivi per natura e hanno bisogno di correre. E quando non può stare fermo insegnanti e amministratori spesso erroneamente attribuiscono la loro inquietudine di ADD o ADHD [sindrome da deficit di attenzione e iperattività] . Il messaggio è chiaro: i ragazzi sono solo ragazze indisciplinate.

La verità è che gli uomini sono diventati cittadini di seconda classe.

Le cose non vanno meglio a scuola. Lì, i giovani devono affrontare i pericoli del titolo IX, la legge 1972 progettata per vietare la discriminazione sessuale in tutti i programmi educativi.

Ai sensi del Titolo IX, la percentuale delle atlete dovrebbe corrispondere alla percentuale delle studentesse. Quindi, se non ci sono abbastanza donne per partecipare, diciamo, a wrestling e hockey su ghiaccio, beh, allora: non più lotta e non più hockey su ghiaccio.

Ciò che una volta era visto come pari opportunità per le donne è diventato qualcosa di completamente diverso: la richiesta di uguali risultati. Quelli non sono assolutamente la stessa cosa.

Il titolo IX è anche abusato quando si tratta di sesso. Nel 1977, un gruppo di donne a Yale ha usato Titolo IX per rivendicare che le molestie sessuali e violenza costituiscono una discriminazione nei confronti delle donne.
Le molestie e la violenza vera e propria dovrebbe essere reati punibili, ovviamente. Ma il campus universitario è un terreno fertile per l'attività sessuale, il che rende la determinazione di illeciti (e con titolo IX per dimostrarlo) estremamente difficile. Cattiva condotta sessuale non necessariamente costituisce molestie e le donne hanno più di un ruolo da giocare come gli uomini.

Anche in questo caso gli uomini sono in una situazione impossibile, per c'è un comandamento non detto, quando si tratta di sesso in America: tu non devi mai dare la colpa alla donna. Se sei un uomo che è sessualmente coinvolto con una donna e qualcosa va male, è colpa tua. Semplice.

Judith E. Grossman ha fatto luce su questo fenomeno in un recente articolo del Wall Street Journal editoriale. Un'ex femminista, Grossman ammette che in passato si sarebbe espresso "sostegno incondizionato" per le politiche come quele del titolo IX. Ma questo era prima che suo figlio fosse accusato di "sesso non consensuale" da un ex fidanzata.

Scrive la Grossman: "Il Titolo IX ha cancellato la presunzione di innocenza che è così fondamentale per le nostre tradizioni di giustizia. Nei campus universitari di oggi, nè "al di là di ogni ragionevole dubbio", e nemmeno lo standard minore di prova  "prove chiare e convincenti", è necessario per stabilire la colpevolezza di cattiva condotta sessuale ".

Quando gli uomini diventano mariti e padri, le cose si mettono davvero male. Nei tribunali di famiglia in tutta l'America, gli uomini sono regolarmente spogliati dei loro diritti e del diritto a un giusto processo. La legge contro la violenza contro le donne (VAWA) viene facilmente usata contro di loro dal momento che la sua definizione di violenza è così ampia che qualsiasi conflitto tra i partner può essere considerato un abuso.

"Se una donna si arrabbia per qualsiasi motivo, si può semplicemente accusare un uomo e gli uomini sono ritenuti assiomaticamente in colpa nella nostra società", osserva il dottor Helen Smith, autore del nuovo libro, "Gli uomini in sciopero." Ciò è particolarmente odioso perché, come aggiunge Smith, la violenza nelle relazioni domestiche "è quasi il 50% da uomini e il 50% da donne."

Scioccato? Se è così, questo è in parte perché i media non credono gli uomini possono essere vittime di violenza domestica, in modo che non la riportano. Essi preferiscono nutrirsi di storie che dipingono le donne come vittime. E così facendo, hanno convinto l'America che c'è una guerra sulle donne.

Eppure si tratta di maschi che soffrono nella nostra società. Dalla fanciullezza fino all'età adulta, la White Male americano deve combattere la sua battaglia attraverso una litania di insulti, supposizioni e le lamentele circa la sua stessa esistenza. La sua oppressione è diverso da qualsiasi cosa le donne americane hanno dovuto affrontare. A differenza delle donne, però, gli uomini non si organizzano e non formano gruppi quando sono stati perseguitati. E stanno fuori dal gioco.

L'America ha bisogno di svegliarsi. Abbiamo fatto oscillare il pendolo troppo lontano nella direzione opposta, da un mondo dell’uomo al mondo della donna.

Questo non è l'uguaglianza. Questa è la vendetta.

martedì 16 luglio 2013

La battaglia per i minori adesso ha il sostegno del parlamento europeo

Maffioletti: la mia battaglia per i minori adesso ha il sostegno del parlamento europeo - Associazione di Associazioni Nazionali per la tutela dei Minori




Maffioletti: la mia battaglia per i minori adesso ha il sostegno del parlamento europeo
Gabriella Maffioletti

16/07/2013 - 15.15

Trento. Alcuni anni fa ho iniziato ad occuparmi di minori sottratti alle famiglie. Ho scoperto fin da subito un universo nascosto fatto di abusi nei confronti dei minori e delle famiglie che sulla base di valutazioni e perizie soggettive di natura psichiatrica e psicologica venivano strappati all’affetto dei loro cari in nome di una “presunta” tutela, che in realtà era un vero e proprio sequestro di stato e un crimine verso il minore.
Questi abusi erano comprensibilmente incredibili, ed è stato molto difficile far capire alla gente che proprio qui, nel cuore della civile Europa, le stesse autorità dedite alla tutela dei bambini stavano commettendo degli abusi nei loro confronti. All’incredulità della gente si sono aggiunti gli attacchi, anche personali, da parte di alcune forze reazionarie, spinte da conflitti di interesse sia economici che politici, che hanno ostacolato e ostacolano strenuamente ogni tentativo di riforma. Infatti in Trentino si spendono più di 10 milioni di euro per i minori fuori dalla loro famiglia, e come ha ben riassunto l’onorevole Antonio Guidi nel convegno dell’anno scorso al Palazzo della Regione di Trento: “Vale più un chilo di bambino che un chilo di eroina”. Questo sistema da lavoro e reddito a molte persone ed è un bacino di voti per quei politici miopi che tutelano il sistema sulla pelle dei minori.
Incurante delle difficoltà, ho continuato per il bene dei bambini. Pian piano, non solo per merito mio, altre voci si sono levate per smascherare questo scandalo. Ricordo in particolar modo l’onorevole Antonio Guidi, la dottoressa Vincenza Palmieri, l’avvocato Francesco Miraglia e il giudice Francesco Morcavallo. E recentemente anche il Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza mi ha dato ragione sostenendol’attuale inesistenza di politiche minorili, in un contesto di default del sistema di welfare. Altro che “va tutto bene”, “ho piena fiducia nei miei operatori” e “dobbiamo solo migliorare” come afferma l’Assessore Violetta Plotegher. Contro la riforma dei servizi sociali si era persino scomodato l’ex Presidente della Provincia Autonoma di Trento Lorenzo Dellai che aveva voluto “confermare la piena fiducia verso la rete dei servizi pubblici” definendo le polemiche “spesso immotivate o sopra le righe”. Ma come appare chiaro dall’interrogazione del Vice Presidente del parlamento Europeo, qui si tratta di un sistema allo sbando. E l’interrogazione in questione mi conforta sia perché finalmente sta squarciando il velo di “omertà” su questi abusi, sia perché sostiene e conferma quanto da me sostenuto da anni.
Infatti il Vice Presidente del Parlamento Europeo denuncia che: “Numerosi rapporti e articoli di stampa italiani hanno messo in luce un eccessivo affidamento di bambini in casa-famiglia o all'affidamento familiare, tanto da far parlare di «allontanamenti facili». Spesso i minori vengono allontanati per motivi generici (ad esempio conflittualità, problemi economici, inidoneità genitoriale, problemi abitativi), senza una reale possibilità di ascoltare i genitori e i minori coinvolti, sulla sola base dei rapporti dei servizi sociali e delle perizie psichiatriche o psicologiche.” Fa piacere vedere che le mie affermazioni sono avvalorate a livello europeo, non tanto per orgoglio personale ma per la possibilità concreta di cambiare il sistema e aiutare i bambini.
Ma non è tutto, l’interrogazione dell’onorevole Angelillo descrive una situazione allarmante ma purtroppo reale: “Allo stato attuale, non si riescono a distinguere gli allontanamenti realmente necessari da quelli che, con un'adeguata politica di sostegno alle famiglie in grado di prevenire e risolvere i disagi, potrebbero essere evitati, soprattutto senza allontanare i bambini dai propri genitori.
Mi auguro che la Commissione Europea faccia finalmente chiarezza e che i tanti bambini attualmente ingiustamente “detenuti” nelle case famiglia e nelle famiglie affidatarie possano ritornare a casa e riabbracciare i loro cari.
 
Gabriella Maffioletti Delegata Nazionale ADIANTUM

mercoledì 10 luglio 2013

Affido condiviso: a rimetterci sono i papà


La legge 54 sull’affidamento condiviso dei figli nelle separazioni e nei divorzi ha da poco superato il settimo anno ed è oggetto di profondo dibattito.

Fonte:http://www.famigliacristiana.it/articolo/fascione-l-afido-condiviso.aspx

E’ stata quasi totalmente sdoganata dai tribunali italiani, che la applicano massivamente. Ma secondo alcuni autorevoli critici è stata anche purtroppo svuotata degli obiettivi per cui era nata: la legge 54 sull’affidamento condiviso dei figli nelle separazioni e nei divorzi ha da poco superato il settimo anno ed è oggetto di profondo dibattito.
Sul tavolo c’è, prima di tutto, la domanda se sia veramente uscita dalla carta. Insomma, l’affidamento condiviso ha davvero realizzato quel principio di bigenitorialità secondo cui, pur nella separazione, padri e madri devono mantenere pari diritti e pari doveri nella cura e nell’educazione dei figli?

Secondo le ultime rilevazioni Istat (anno 2010) in Italia le separazioni sono state 88.191 e i divorzi 54.160. Il fenomeno è in crescita costante: se nel 1995 c’erano 158 separazioni e 80 divorzi ogni 1000 matrimoni, ora si registrano 307 separazioni e 182 divorzi. Quasi il 70% delle separazioni e quasi il 60% dei divorzi coinvolge coppie con figli.
E qui arriviamo all’applicazione, quasi a tappeto, dell’affidamento condiviso: è stato previsto nell’89,8% delle separazioni e nel 73,8% dei divorzi.

I figli coinvolti nel fenomeno non sono pochi: si tratta complessivamente di 153.331 tra bambini, adolescenti e maggiorenni. Di questi, 88.972 sono minorenni e sono dunque stati affidati secondo il regime della legge 54 o, per casi ormai residuali, in affidamento esclusivo.

Fino al 2005, l’affidamento esclusivo dei figli minori alla madre è stata la situazione ampiamente prevalente. C’era una previsione di “calendari di visita” riservati ai padri, che si trovavano però estromessi dalla vita quotidiana dei piccoli nonché dalle decisioni che li riguardavano, dal momento che la potestà genitoriale spettava in modo esclusivo al genitore affidatario.

Con l’entrata in vigore della Legge 54/2006 l’ottica è stata ribaltata: secondo la nuova legge entrambi i genitori ex-coniugi conservano la potestà genitoriale e devono provvedere al sostentamento economico dei figli in misura proporzionale al reddito. E’ previsto un assegno al coniuge economicamente più debole (ma attualmente è concesso solo nel 20% dei casi), cumulabile a quello per i figli, che viene previsto nel 73% delle separazioni. Entrambi i tipi di contributo ammontano in media a poco più di 400 euro, 480 per i figli.

Se questo è il quadro formale, gli aspetti sostanziali legati alla corretta applicazione della legge 54 mostrano tutte le difficoltà culturali, organizzative, sociali, che essa ha incontrato in questi anni.

Una delle maggiori critiche alla legge riguarda la sostanziale “fatica” del sistema, della magistratura in particolare, ad abbracciare pienamente l’innovazione e a evitare di ripetere i vecchi schemi, come l’indicazione della madre “collocataria principale” e la stesura di un calendario minimo di visita che replica le vecchie dinamiche dell’affidamento esclusivo.

Secondo altri – e opposti - punti di vista, l’affidamento condiviso rischia invece di aumentare l’esasperazione dei rapporti e creerebbe un corto circuito nella gestione delle rispettive spese sostenute per i figli (il testo normativo infatti ha eliminato il riferimento a un assegno di mantenimento fisso).

In questi ultimi due anni è stato discusso al Senato un disegno di legge di riforma della legge 54, il ddl 957, ispirato al lavoro dell’associazione Crescere Insieme, presieduta dal professor Marino Maglietta, che è stato l’ispiratore dell’affido condiviso. Il testo era volto a dare maggior sostanza agli obiettivi dell’attuale norma, favorendo ad esempio la situazione di un doppio domicilio per i figli, per vivere la quotidianità con entrambi i genitori. Finita la Legislatura, l’iter della proposta si è interrotto e un nuovo testo dovrà essere ripresentato.

Tra questi molteplici chiaroscuri, l’affidamento condiviso resta oggi una grande opportunità, per i genitori, di dimostrare ai figli l’amore e il senso di responsabilità che li tiene legati, a prescindere dalla vicenda della separazione.


                                                                                               Benedetta Verrini

L’affido condiviso? E’ rimasto sulla carta. Quella grande rivoluzione, rappresentata dall’affermazione del principio di bigenitorialità come valore da difendere in tutti i casi di separazione, non è ancora riuscita a realizzare il cambiamento sperato. La prassi giurisprudenziale ha trovato gli escamotage per mantenere gran parte delle separazioni in una condizione da pre-riforma. Marino Maglietta, presidente dell’associazione Crescere Insieme, docente universitario e ispiratore della legge 54 del 2006, stila un severo bilancio dei primi anni di applicazione dell’affidamento condiviso.

«E’ stata adottata una - neanche troppo sottile - modifica lessicale», spiega. «Non si parla più di genitore affidatario ma di genitore collocatario. Si tratta ancora, in prevalenza, della madre, che trascorre con i figli la gran parte del tempo, resta nella casa familiare e si fa carico di tutte le decisioni e i compiti di cura. Con questa impostazione, va da sé che la stragrande maggioranza delle sentenze ripescano il vecchio diritto di visita del padre e dispongano un assegno di mantenimento per i figli, che nella ratio della legge doveva restare residuale ed esclusivamente perequativo».

Cosa è successo? «E’ successo che la magistratura si è opposta all’applicazione della legge», sottolinea Maglietta. «Un po’ per fattori culturali, un po’ per difficoltà a ribaltare prassi ormai consolidate, il sistema ha respinto la portata innovativa dell’affido condiviso. Certamente, per applicarlo nel modo giusto, garantendo il pieno coinvolgimento dei padri e delle madri nella vita dei figli, è necessario entrare in ciascun caso, approfondirlo, sforzarsi di sollevare gli occhi dai moduli pre-stampati che azzerano la specificità di ogni storia familiare».

Non a caso, osserva Maglietta, gli unici veri affidamenti condivisi i genitori sono costretti a pretenderli e a farseli da soli, con l’assistenza di mediatori. Ma quanta buona volontà, quanta fiducia reciproca, quanta consapevolezza e corretta informazione servono per arrivare a questo traguardo? In questo senso, il promotore dell’affidamento condiviso non è tenero nemmeno con la categoria degli avvocati che, a suo avviso, «non ha apprezzato il fatto che la legge 54 andasse a ridurre i contenziosi, disinnescando lo scenario vincitori-vinti».

«Per questo motivo, dopo aver a lungo monitorato la situazione, abbiamo ispirato la proposta di legge 957 in discussione in Senato, il cui iter è stato interrotto dalla fine della Legislatura. Continueremo a lavorare perché possa essere riproposta, e nel frattempo anche aggiornata», dice. «L’ipotesi legata alla riforma della legge 54 è quella di “riscriverne” alcuni passaggi in modo che la sua applicazione diventi assolutamente ineludibile».

L’idea di fondo è quella di ribadire la pariteticità delle responsabilità e dei doveri di cura dei genitori, «pariteticità che non significa una divisione al 50 per cento dei tempi», sottolinea Maglietta, chiarendo una volta per tutte un aspetto particolarmente dibattuto della proposta. E di fronte allo scalpore che ha suscitato l’idea del “doppio domicilio”, il professore ricorda che la bigenitorialità si sostanzia nella quotidianità con i figli, nella possibilità che “casa” sia l’appartamento del papà così come quello della mamma.

Il corollario di questa impostazione è il superamento di tutte le rigidità legate ai tempi di visita e all’assegno di mantenimento. «Se anche il padre è presente nella vita quotidiana dei ragazzi, non ha senso impostare un rigido calendario di visita e non ha senso dibattere sull’ammontare di un contributo fisso. Con il “vecchio” assegno, infatti, i padri liquidavano anche tutti gli obblighi di cura che finivano sulle spalle delle ex mogli. Ora la gran parte delle mamme sarebbe davvero sollevata di fronte alla possibilità di contare soprattutto sul tempo dei padri, più che sul loro denaro».

                                                                                             Benedetta Verrini

«Una nuova e doppia realtà è inevitabile per il figlio di una coppia che si separa, così come all’inizio sono da mettere in conto i capricci e i piccoli opportunismi di ogni giorno. Ciò che va invece curato da subito è la qualità della relazione, la sintonia tra ex coniugi su ruoli e compiti educativi». Lo sostiene con chiarezza Fulvio Scaparro, psicoterapeuta e fondatore dell’associazione milanese GeA, Genitori ancora, che da oltre 25 anni promuove la cultura della genitorialità oltre la separazione e il divorzio.

«E’ importante che questa dimensione continui attraverso la relazione tra madre e padre e non a livello individuale. Per un figlio di separati infatti il dolore più grande non è spostarsi da una casa all’altra ma passare attraverso messaggi contrastanti, spesso bellicosi senza contare che a volte il bambino stesso diventa messaggero di rabbie e ostilità».

Difficile però dialogare con equilibrio e coerenza sul terreno quasi sempre aspro di una separazione. «Ma passato il periodo della tempesta deve sopraggiungere la capacità di distinguere il fallimento matrimoniale dal progetto genitoriale. Anzi, lo stesso matrimonio non sarà stato vissuto invano se i figli potranno continuare a contare su mamme e papà capaci di crescerli in armonia.  Proprio nelle difficoltà i “buoni” genitori si dimostrano tali».

Per questo Scaparro invita i genitori che affrontano una separazione a farsi aiutare, avvalendosi dei servizi di mediazione familiare e ancora prima a formarsi. «Esistono corsi di preparazione sulla genitorialità, responsabilità comune e irreversibile, così irreversibile che andrebbe trasmessa chiaramente anche nei corsi pre-matrimoniali per ricordare sempre che si può smettere di essere coppia nella passione e negli affetti ma non si finisce mai di essere genitori».

                                                                                                   Paola Molteni

Nel dibattito su una possibile riforma della legge 54/2006 l’Aiaf - Associazione Italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori ha preso una posizione netta, già nel 2011, per ribadire che non vi sono reali necessità di modifica.

Quello che serve, piuttosto, per far decollare il principio di bigenitorialità, sarebbe «un’equa ripartizione dei compiti domestici e di cura dei figli, nel momento della convivenza come nella fase di separazione della coppia genitoriale; un più efficace intervento culturale sulle responsabilità familiari e genitoriali e un concreto sostegno alle famiglie; servono interventi di tipo psicologico e relazionale a sostegno della genitorialità, soprattutto nei casi di conflittualità tra i genitori, e una fattiva politica di ampliamento dei servizi sul territorio». Così aveva scritto, in un intervento lucido e appassionato, la compianta Milena Pini, che ha guidato per anni l’Aiaf e che è recentemente scomparsa.

In sintonia con il suo pensiero, gli avvocati aderenti all’associazione guardano con preoccupazione a interventi che possano irrigidire, o dettagliare all’estremo, i principi fissati dalla legge sull’affidamento condiviso.

«Il concetto della condivisione non può essere ridotto a una quasi “scientifica” separazione al 50% del tempo trascorso con padre e madre. E’ necessario elevarlo a un altro piano, quello educativo, rassicurando i bambini che la mamma e il papà sono coinvolti nella loro vita e sono d’accordo sulle scelte che li riguardano, dalla scuola agli sport, passando per l’educazione e gli orari», spiega Luisella Fanni, vicepresidente Aiaf.
«L’ipotesi di imporre un doppio domicilio, contenuta nell’ultima proposta di riforma della legge 54, mi pare davvero di difficile realizzazione, perché dipende dal livello di conflittualità della coppia ma anche dall’età e dalle abitudini dei figli. Non mi pare giusto che, soprattutto quando sono piccoli, abbiano confusione su dove devono stare e su quale sia la loro casa. Gradualmente potranno capire che dove c’è un genitore che li ama e si prende cura di loro, lì c’è una loro casa».

L’avvocato Fanni cita casi in cui gli ex coniugi sono riusciti a collaborare e a trovare soluzioni molto equilibrate, «ma serve un grande lavoro da parte degli avvocati per far capire, ad esempio, a certi padri che fanno mancare il loro sostegno economico, che i figli devono essere mantenuti; e a certe madri che i bambini non sono una proprietà e non esiste una competenza esclusiva nell’accudimento, in cui bisogna coinvolgere anche i padri, quelli che già lo facevano e quelli che devono imparare a farlo».

Nelle separazioni è passato il mito della vittoria a tutti i costi? «Per gli avvocati Aiaf sicuramente sì. Siamo consapevoli che la miglior vittoria, il più delle volte, è quella in cui si trova un punto di mediazione, in cui si fa capire - anche alla coppia più conflittuale - che i figli hanno il diritto di mantenere le relazioni con entrambi e con i loro familiari. Qui non ci sono vittorie o sconfitte, c’è solo l’importanza di rispettare i propri doveri, oltre a reclamare diritti».

La grande spinta culturale che serve alla legge 54 per poter decollare coinvolge l’intero sistema, avverte l’avvocatessa. Giudici, avvocati, ma anche mediatori e psicologi e tutte le competenze coinvolte nella separazione sono chiamati a consapevolizzare la coppia sui doveri nei confronti dei figli e sul senso profondo del continuare a essere genitori. «Dobbiamo chiederci cosa perdono quei bambini» dice, «e cosa possiamo fare per continuare a garantirglielo. E’ necessario altresì valutare quali erano le abitudini precedenti di quella famiglia e modellare il futuro dei bambini su di esse, chiamando i genitori a fare la loro parte perché, anche se non si è più mariti o mogli, si resta madri e padri per sempre».

                                                                                           Benedetta Verrini

Il diritto di un bambino di avere sempre accanto entrambi i genitori, anche dopo la loro separazione, resta sulla carta. Sì perché nonostante la Corte di Cassazione abbia stabilito che l’affido condiviso dei figli debba essere seguito di regola nei casi di separazione, l’istituto non viene effettivamente applicato.

Dati e considerazioni emergono da un recente convegno organizzato a Roma dal Centro studi sul diritto della famiglia e dei minori. In Italia il 49% delle coppie che si separano e il 33% di quelle che divorziano hanno almeno un figlio minore e le separazioni per cui è stato stabilito l’affidamento congiunto toccano l’89,8%. Disposizioni ben lontane della realtà però, come informa una ricerca del centro, secondo la quale per l’88% dei padri separati l’affido condiviso è inefficace (nel 92% dei casi il figlio viene affidato di fatto alla madre).

«E così il minore continua a trovarsi in mezzo a un genitore “collocatario” (di solito la madre) e a uno “marginalizzato” - commenta l’avvocato Matteo Santini, direttore del centro - squilibrio che secondo un nuovo disegno di legge si risolverebbe garantendo ai figli dei separati una doppia casa e un doppio domicilio». Ma non sempre duplicare case e organizzazione quotidiana significa garantire una reale condivisione.

Lo conferma Anna, 40 anni, mamma di due bambini di 13 e 9 anni, separata da più di un anno. «I nostri figli hanno la fortuna di poter contare su due case vicine, dividono la loro settimana tra me e il papà e stiamo attenti a non far mancare loro niente. Non riusciamo però a comunicare sulle loro emozioni e sui bisogni educativi e abbiamo mantenuto le abitudini di prima: io sono quella severa, con lui si divertono però non fanno mai i compiti! Con il risultato che, così “sdoppiati”, anche se mi sembrano sereni diventano sempre più insofferenti alle regole e opportunisti».

                                                                                                 Paola Molteni

L’affido condiviso? Il suo riconoscimento legislativo e la sua diffusione nella prassi delle separazioni italiane sono un fatto molto positivo, che ha consentito di riportare i padri sulla scena educativa e affettiva nella relazione con i figli. «Ma un coinvolgimento significativo non significa, necessariamente, una suddivisione al 50% di tutte le responsabilità organizzative e genitoriali. Ogni separazione è una storia a sé. Se l’affido condiviso deve trasformarsi in una lotta per avere tutto doppio, diventa una follia». Costanza Marzotto è psicologa, mediatrice familiare, direttore del Master biennale in Mediazione familiare e comunitaria all’Università Cattolica e membro dell’équipe del Servizio di Psicologia Clinica per la coppia e la famiglia che da anni ha istituito anche i Gruppi di parola per i figli dei genitori separati (www.unicatt.it/serviziocoppiafamiglia).
Rispetto alle dinamiche e alla riuscita dell’affido condiviso in Italia ha una visione estremamente lucida, che tiene conto anche del panorama internazionale in cui questa esperienza ha già una lunga e importante storia da raccontare.

Nell’ultima legislatura si è discusso di una proposta per incentivare ulteriormente l’affido condiviso, facendo sì che i figli dei separati abbiano davvero due domicili, due abitazioni, doppi luoghi degli interessi e degli affetti. Cosa ne pensa?

«Da un lato, penso che ci troviamo in una fase in cui l’esperienza dell’affido condiviso è ancora fortemente rivendicata, soprattutto dai padri, dunque si pretende il 50% di tutto per essere certi di essere coinvolti nella vita dei figli. Ed è vero che attualmente il genitore “collocatario” ha una posizione “dominante”, mentre l’altro, in una posizione più accessoria, finisce per diventare maggiormente rivendicativo soprattutto sul fronte economico, disposto per esempio a pagare solo per le spese sostenute quando il figlio è con lui. Ma questo non è il cuore del problema. E qual è, allora? Il problema è che i genitori devono essere aiutati a chiedersi quale fosse, durante il matrimonio, la loro delega di responsabilità genitoriale. Se un padre, per esempio, aveva già un ruolo periferico nella vita dei figli – e ciò avviene spesso, perché in Italia la struttura familiare vede ancora un genitore principale e uno accessorio – sarà molto difficile costruire “in laboratorio” un affido condiviso in cui all’improvviso diventa presente e condivide esattamente a metà ogni responsabilità educativa e familiare. Sappiamo che non è nemmeno questo che serve ai figli».

In che senso?

«Una recentissima ricerca anglosassone, condotta su un campione di 400 giovani adulti che hanno ripercorso la separazione dei genitori, ha fatto emergere il bisogno di un progetto il più possibile personalizzato, che tenga conto dell’età e dei bisogni del singolo bambino, basato più sulla qualità della relazione che sulla quantità. Facciamo un esempio: per la qualità della relazione, forse è più importante che un padre porti ogni settimana il proprio figlio a calcio o a nuoto, piuttosto che gli imponga di condividere, magari fin dalle prime settimane della separazione, una nuova casa in cui vive anche un nuovo partner magari con altri figli».

Dunque è meglio non imporre una divisione della vita familiare “con il bilancino”...

«Esattamente, soprattutto, lo ripeto, se prima della separazione il ruolo del padre era in qualche modo accessorio rispetto a quello della madre. Questo non significa escludere un genitore, ma incoraggiarlo e coinvolgerlo in una relazione davvero significativa. E’ quello che ci chiedono anche i ragazzi: vorrebbero percepire che il genitore collocatario incoraggia e sponsorizza il rapporto con l’altro genitore, invece accade spesso che gli incontri sono vissuti con estrema tensione e ansia di controllo».

Per questo si cercano strumenti giuridici per dare maggiore concretezza all’affido condiviso…

«Certo, abbiamo molte esperienze all’estero in questo senso: in Canada, per esempio, l’alternanza tra una casa e l’altra è una realtà. L’affido condiviso alternato, che impone al bambino di vivere a settimane alterne in due case diverse, è però al centro di un fortissimo ripensamento in Francia: sono stati i padri stessi a capire che il cambiamento continuo del setting alimentare, educativo, organizzativo era fonte di grande stress per i bambini e i ragazzi».

Allora, che fare?

«Accedere a una mediazione familiare precoce, avere un orientamento informativo preventivo per stabilire accordi significativi da proporre direttamente al giudice della separazione. In questi ultimi tempi ho visto funzionare molto bene una soluzione che prevede l’alternanza dei genitori nella casa familiare. E’ un’esperienza che prevede che entrambi abbiano una casa “di riserva”, magari quella dei nonni o di un nuovo partner, ma permette di lasciare invariate le abitudini dei bambini, di evitare la famosa “valigia in mano” e di introdurre i cambiamenti della separazione con estrema gradualità, condividendo davvero ogni situazione, spesa, difficoltà nella gestione domestica ed educativa».

                                                                                               Benedetta Verrini

Prendersi cura dei figli, seguire la loro crescita, decidere dove frequenteranno il liceo o da quale dentista possono andare. I papà di oggi vogliono essere presenti nelle vite dei loro bambini anche dopo un’eventuale separazione. La soluzione potrebbe essere l’affido congiunto. Che, però, nella pratica a volte funziona, altre no.

«Quando io ed Elena ci siamo lasciati, era terrorizzato al pensiero di non poter più a stare accanto a nostro figlio Marco», racconta Tiziano Buselli, 48 anni e un bambino di 8. «Ho ottenuto l’affido condiviso e ne sono entusiasta, perché passo parecchio tempo con Marco e mi sento un papà presente, attento». Secondo Tiziano, le piccole difficoltà pratiche si risolvono con il buon senso. «Per un bimbo può essere faticoso avere due case, dovere fare e disfare la valigia continuamente. Per questo io e la mia ex abbiamo diviso il guardaroba del piccolo tra i due appartamenti e abbiamo arredato le camerette con mobili simili, in modo che nostro figlio non si senta mai ospite in casa sua». Queste strategie hanno funzionato: il piccolo Marco è sereno. «Impegnarmi con la mia ex moglie per rendere più agile la vita del bambino ha migliorato anche il nostro rapporto, adesso siamo meno rancorosi e più complici nell’educazione del piccolo».

Non per tutti l’affido condiviso rappresenta la scelta migliore. «Sono felice di potermi ancora occupare di mia figlia», racconta Antonio Pesce, 42 anni e una bimba di 10. «Però ho l’impressione che l’affido congiunto stressi un po’ troppo la mia piccola, che si ritrova ad avere due vite autonome e separate, una con me e una con la mamma. Purtroppo spesso i ragazzi subiscono l’affido condiviso, che rischia di privarli delle sicurezze di cui hanno bisogno. Sono arrivato al punto di pensare che, forse, in caso di separazione, affidare il bambino a un solo genitore, senza naturalmente escludere l’altro dalla vita del piccolo, è il male minore».

«L’affido condiviso potrebbe essere una grande opportunità per le coppie con figli che si separano» sostiene Paolo Cavallaro, 50 anni e due figli adolescenti. «Purtroppo, però, sono pochi i genitori separati che riescono a crescere insieme i bambini senza scontrarsi di continuo». Le amare parole di Paolo sono il frutto della sua esperienza. «Io e la mia ex moglie credevamo che l’affido condiviso sarebbe stato perfetto per noi, invece ci ha creato molti problemi. Per esempio, io credo che la mia ex mi estrometta da parecchie scelte familiari, mentre lei mi accusa di screditarla davanti ai nostri figli, minando la sua autorità. Ed entrambi ci rendiamo conto che, purtroppo, nonostante i nostri sforzi i ragazzi si sentono spaesati e soffrono».

                                                                                                          Erika Di Francesco

Separarsi è doloroso per tutti. E, se ci sono anche dei figli, diventa faticoso e difficile continuare a fare i genitori, senza escludere la mamma o il papà dell'educazione dei bambini. Molte madri ritengono che la soluzione sia l'affido condiviso.

«Io e Patrizio siamo stati amici per parecchi anni prima di innamorarci, sposarci e diventare i genitori di Viola», racconta Chiara Autelli, 39 anni e una figlia di 12. «Ed è stato proprio l'affetto che ci ha sempre uniti a permetterci, una volta finito l'amore, di restare due genitori presenti e uniti». L'esperienza di Chiara è positiva: Viola vive un po' dalla mamma e un po' dal papà ed è una ragazzina sorridente, sicura di sé. «Con il mio ex ci siamo spartiti i compiti», continua Chiara, «per esempio, io ho scelto la scuola per la piccola, mentre lui l'ha portata dal suo dentista di fiducia per l'apparecchio. Siamo in armonia».

Anche Serena Di Fazio, 47 anni e un bambino di 12, è entusiasta dell'affido condiviso: «All'inizio non è stato facile, perché il nostro Mattia era disorientato dalla nuova vita divisa tra me e il mio ex. Ma sono bastati pochi mesi per ritrovare un po' di equilibrio. Ed è capitato che fosse proprio il nostro bambino a proporci semplici soluzioni ai problemi pratici. Per esempio, qualche mese fa ci ha chiesto di comprargli due copie dei libri scolastici, perché gli capitava spesso di dimenticarli a casa di uno o dell'altra».

Per Elena Masini, 50 e una figlia di dieci, invece, l'affido condiviso è molto, troppo stressante: «Purtroppo io e il mio ex abbiamo pessimi rapporti e non è facile educare la nostra Elisa insieme». Elena si sforza di essere una madre serena, ma quando la bambina è con il papà è sempre tesa, preoccupata. «Vorrei davvero che la piccola avesse un bel rapporto con suo padre e mi rendo conto che dovrei essere io per prima a parlare bene di lui con Elisa. Purtroppo, non sempre ci riesco». Secondo Elena, vivere in due case è troppo faticoso per la sua bimba. «Credo che sarebbe molto meglio se Elisa vivesse nella casa in cui abitavamo tutti insieme e fossimo io e il mio ex ad alternarci accanto a lei».

                                                                                                   Erika Di Francesco

Uno studio pubblicato su Children & Society, su 184.496 bambini in 36 Paesi occidentali (Italia inclusa) ha dimostrato che i bambini che vivono con entrambi i genitori biologici riportano i più alti livelli di soddisfazione di vita rispetto ai bambini che vivono con un genitore single o con un genitore biologico e uno acquisito 

In Italia, purtroppo, l'81,9 % dei figli, dopo il divorzio, hanno un solo genitore con cui trascorrono la loro quotidianità e (di solito si tratta della madre) e solo il 18,9% ha la fortuna di continuare a vedere regolarmente entrambi i genitori. Questo succede anche quando è stato deciso l’"affidamento condiviso”

In tal modo si disconosce l'importante principio di bigenitorialità cioè il fatto che un bambino ha un legittimo diritto a mantenere un rapporto stabile con entrambi i genitori, qualunque sia la loro situazione di coppia.

Il pediatra Vittorio Vezzetti, autore del libro sulla giustizia minorile Nel nome dei figli, ha esaminato, raccolto, riassunto e integrato le più importanti ricerche scientifiche internazionali con validazione statistica relative all’importanza dell’affidamento condiviso.

Le conclusioni, pubblicate in un articolo pubblicato sulla Rivista Scientifica della Società di Pediatria Preventiva e Sociale, considerano gli effetti benefici della bigenitorialità «anche se questo comporta la soluzione del doppio domicilio per i figli di coppie separate».

Mentre  Piercarlo Salari, anch'esso pediatra prtesso il consultorio Familiare Milano e Componente SIPPS haor sottolineato che «La custodia condivisa migliora lo status psichico e fisico dei figli  come dimostrano i risultati congiunti di numerose e affidabili ricerche scientifiche, il coinvolgimento di entrambi i genitori nella crescita del figlio migliora lo sviluppo cognitivo, riduce i problemi di carattere psicologico, riduce l’insorgenza di problemi comportamentali nell’età adolescenziale».


                                                                                                                Orsola Vetri