lunedì 10 ottobre 2016

"Ordina un papà". Scegli un uomo e fallo sparire.

Fonte: http://www.tempi.it/ordina-un-papa-che-e-come-dire-scegli-un-uomo-e-fallo-sparire#.V_tD03p1cRk

“Ordina un papà”. Che è come dire: scegli un uomo e fallo sparire


Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Ora bastano un clic e 950 sterline per scegliere con facilità e velocità il papà ideale per il proprio bambino. Sì, perché il business della fecondazione artificiale ha pensato di migliorare il suo servizio clienti ideando una app per smartphone davvero all’avanguardia. Si chiama “Order a Daddy” (ordina un papà), ed è un sistema attraverso cui si possono inserire le caratteristiche fisiche, intellettive, professionali e persino spirituali dell’uomo che sarà, come si dice, “il papà ideale dei miei figli”. In pochi istanti l’applicazione mette insieme i requisiti, setaccia la banca dati e trova lo sperma del donatore che più si avvicina ai propri sogni, indicando alla cliente la clinica inglese in cui viene tenuto congelato. «È così, con un uomo che resta un sogno virtuale, che si impedisce definitivamente al bambino di nascere», spiega a Tempi lo psicanalista Claudio Risé.















Risé, cosa può spingere una donna a voler crescere un figlio da sola, senza un padre?
Questa donna rappresenta il modello di donnad ell’Occidente moderno. È indicativo in questo senso quanto spiego nel mio ultimo libro Sazi da morire: ormai il 70-90 per cento delle persone muore (prima causa di decesso in Europa e America del Nord) di malattie “non trasmissibili” (Ncd) che si sviluppano all’interno della persona (per questo sono anche dette “non comunicabili”), come i tumori, le cardiopatie, il diabete. Non sono più dunque i batteri e i virus che si contraggono nei rapporti con gli altri esseri umani ad affliggere gli uomini del nostro tempo, ma i mali dovuti a una vita solitaria, sedentaria e consumista. È la prima volta che si verifica un fenomeno simile nella storia.

Cosa c’entrano le malattie con una app?
Questa applicazione non fa altro che riprodurre il modello antropologico individualista, che rifugge la relazione per chiudersi nel godimento consumista, dove non serve nemmeno più fare la fatica di andare a fare la spesa: si sceglie il prodotto online, lo si riceve a casa e lo si consuma chiusi fra le proprie mura. Ecco, questa nuova app per lo “sperma ideale” ricalca lo stesso modello in cui pretendiamo di vivere al di fuori di ogni relazione. Anche quella procreativa viene sottratta al rapporto grazie alla tecnologia.

Perché fuggiamo le relazioni?
Se il fine dell’esserci è il solo godimento personale, l’altro è un inciampo. Non a caso anche il bambino, “ordinato” online nello stesso modo in cui si ordina la spesa, è concepito esattamente come un prodotto da consumare. E così il figlio non riuscirà a nascere, cioè a svilupparsi come essere autonomo dalla madre. Come spiega san Giovanni Paolo II nei suoi meravigliosi discorsi sulla sessualità, il rapporto tra madre e figlio deve includere sempre un terzo necessario alla generazione: il bambino vive naturalmente e giustamente una relazione simbiotica con la madre, ma senza il padre rimane prigioniero di questa. Il padre “taglia”, fa emergere il figlio permettendo la sua nascita psicologica. Nella relazione con la madre vengono soddisfatti tutti i bisogni primari, lei lo alimenta, lei lo scalda, ma sebbene dopo la nascita il bambino viva una serie di esperienze per conto suo (ad esempio quella di respirare), senza la presenza del terzo sarà incapace di relazioni e di accoglienza. Questa app è solo l’ultimo tassello di un processo già in atto da tempo, da quando con il divorzio prima e l’aborto poi il padre è stato espulso dalla relazione.

Cosa aggiunge al processo questo ultimo tassello che rende il padre addirittura virtuale?
Gli aspetti fisici, corporei e materiali, sono molto importanti e qui sono eliminati. La persona del padre scompare dalla relazione fin dall’inizio. È come se non ci fosse mai stato. Questo nell’immaginario psicologico del bambino ha una grande incidenza, perché il padre non è presente nemmeno come un personaggio passeggero che, fosse anche per una sola notte, ha avuto un rapporto fisico (che include sempre anche lo spirito e l’anima) completo e intimo con sua madre. Un rapporto così profondo da averlo generato. Questa mancanza c’è già nella fecondazione artificiale, ma con questa app in più si rende il padre una realtà solo virtuale.

Jean-Paul Sartre, in Le parole, scrive: «Un buon padre non esiste, è la norma, non si accusino gli uomini bensì il legame di paternità che è marcio». C’è chi dice che è meglio non avere un padre, soprattutto se cattivo.
Si tratta di un errore grossolano. È gravissimo confondere un elemento sostanziale con uno etico. La paternità e la maternità sono elementi sostanziali, perciò necessari, da non confondere con gli elementi etici come la bontà o la cattiveria, altrimenti si costruiscono ragionamenti che partono da un errore all’origine. Il padre è fondamentale nella formazione dell’essere umano (infatti lo sperma resta necessario) e alla personalità del bambino, il quale anche durante la gravidanza sente la voce paterna e si abitua al suo timbro, come provato dagli studi dell’ultimo secolo. Il figlio ha sempre bisogno di questa relazione con l’alterità paterna, anche qualora fosse piena di difetti. È vero che il padre “buono” non esiste, non perché la paternità sia marcia, ma perché ognuno partecipa del bene e del male. Per questo quando il giovane ricco si rivolge a Gesù chiamandolo “Maestro buono”, Lui protesta e risponde che nessuno è buono se non Dio padre. In ogni caso, se si fa scienza, occorre uscire dalle categorie moraleggianti per non cadere in tranelli pericolosi.

Di fatto però molti padri si comportano verso i figli più come amici, non hanno autorità, e non contribuiscono come dovrebbero al distacco dalla simbiosi materna. Di qui le fragilità dei figli.
Anche solo la presenza fisica del padre è importante ed è deleterio se viene a mancare. Poi, certo, la figura paterna oggi è depotenziata al massimo. D’altronde cosa devono fare questi uomini a cui da cinquant’anni spieghiamo che non bisogna essere padri e che la paternità autorevole è un atto criminale? Va inoltre ricordato che in Occidente i padri di oggi subiscono il fatto di essere a loro volta figli di padri che negli anni Settanta, e da molto tempo prima ancora, pensavano alla presenza paterna come un fardello di cui liberarsi. La paternità si trasmette, e noi viviamo in un sistema culturale basato sulla criminalizzazione della paternità.

Esiste un rimedio all’incapacità di essere padri?
Il ruolo materno è decisivo nella valorizzazione di quello paterno. È la madre che deve presentare il padre al figlio, innanzitutto accogliendolo, come non avviene nel caso del “padre virtuale” scelto attraverso l’app. È fondamentale che la donna riconosca il contributo determinante del padre, che non si sostituisca a lui ma piuttosto lo sostenga, lavorando affinché possa essere ciò che è. La donna ha questo grande potere sull’uomo che può usare male, estromettendo il padre, oppure bene, valorizzando il suo spazio. La madre in quest’ottica non viene sminuita. Anzi è lei che, consapevole delle sue capacità uniche, le usa per permettere ai rapporti interpersonali di svilupparsi armoniosamente.
Foto Ansa

giovedì 6 ottobre 2016

Como, omicio dell'architetto. In manette la ex-moglie: " voleva l'affido delle figlie"

Fonte: http://milano.repubblica.it/cronaca/2016/10/05/news/como_architetto_ucciso_arresti-149131222/

Como, svolta nell'omicidio dell'architetto: manette all'ex moglie. "Voleva l'affidamento delle figlie"








Como, svolta nell'omicidio dell'architetto: manette all'ex moglie. "Voleva l'affidamento delle figlie"


Arrestato anche il commercialista con il quale aveva una relazione. Per i carabinieri sono loro i mandanti. Tre mesi dopo l'omicidio lei disse alla madre: "Sono vedova, ora mi risposo"

Svolta nell'inchiesta sull'omicidio di Alfio Vittorio Molteni, l'architetto di 58 anni ammazzato a Carugo, nel comasco, a colpi di pistola. Era il 14 ottobre dell'anno scorso. I carabinieri di Como e quelli del reparto crimini violenti del Ros hanno arrestato l'ex moglie della vittima, Daniela Rho, 46 anni, e il suo commercialista, Alberto Brivio, 49 anni. I due avevano una relazione. Secondo l'accusa, sono i mandanti del delitto commesso per l'affidamento delle due figlie della coppia. Nei mesi scorsi erano finiti in carcere altri dieci indagati, accusati di essere gli esecutori materiali dell'omicidio e i fiancheggiatori. 

Una separazione turbolenta. I carabinieri hanno ricostruito la tormentata separazione tra Molteni e Rho, in particolare hanno cercato di ricostruire le liti e i contrasti sull'affidamento delle figlie che la donna voleva ottenere in via esclusiva. Per questo avrebbe bersagliato l'ex marito con una serie di atti intimidatori per farlo passare, agli occhi del tribunale, come una persona dalle frequentazioni equivoche e pericolose così che gli fosse impedito di vedere le figlie per tutelarne l'incolumità. Tutto era iniziato quando l'architetto, aveva revocato il suo consenso all'accordo di separazione consensuale e aveva promosso la separazione giudiziale con addebito. Nell'ordinanza di custodia cautelare, emessa dal gip di Como su richiesta della Procura, all'ex moglie e al complice viene contestato l'omicidio aggravato, il danneggiamento, lo stalking e la detenzione illegale e il porto in luogo pubblico di pistola.

Escalation di violenza. L'agguato che costò la vita a Molteni doveva limitarsi in realtà a una gambizzazione, l'ennesima e sempre più pesante intimidazione, dopo pedinamenti, telefonate anonime, minacce, l'incendio della sua Range Rover, l'incendio di una finestra di casa e l'esplosione di otto colpi di arma da fuoco contro le finestre della sua abitazione. Secondo gli investigatori, dietro questa escalation di violenza culminata con l'omicidio, ci sarebbero stati - in qualità di mandanti - Rho e Brivio. Secondo le accuse, infatti la moglie di Molteni e il commercialista, attraverso l'intermediazione della guardia giurata Luigi Rugolo, avrebbero pagato Michele Crisopulli e Vincenzo Scovazzo per compiere gli atti intimidatori più gravi, l'ultimo dei quali, appunto, da gambizzazione si è trasformato in omicidio.

"Ora mi risposo". Tre mesi dopo l'omicidio, il giorno 17 gennaio, nel corso di una conversazione con la madre, Rho disse alla madre: "Sono vedova... sono a posto, se vado a fare il corso per fidanzati mi sposo in chiesa". L'intenzione della donna, dicono i carabinieri, era di sposarsi con Brivio. Questa conversazione è agli atti dell'inchiesta.

Ucciso da un colpo alla schiena. L'architetto venne ucciso nel cortile della casa di Carugo in cui, dopo la separazione, viveva con il padre e una zia. Solo due i colpi esplosi: uno alle gambe e l'altro, letale, alla parte bassa della schiena. Tra le ipotesi prese in considerazione a caldo dagli investigatori anche quella che i killer, nascosti dietro i cespugli del giardinetto condominiale, intendessero solo dare un avvertimento al professionista e non ammazzarlo. Del resto, appena qualche mese prima, Molteni era stato vittima di alcuni pesanti atti intimidatori: in una occasione qualcuno aveva dato fuoco alla sua Range Rover parcheggiata in un box sotto lo studio di Mariano Comense; in un'altra, in pieno giorno, erano stati esplosi otto colpi di pistola contro la finestra della casa di Carugo dove poi è stato ammazzato. In entrambi i casi, Molteni aveva presentato denuncia ai carabinieri, negando di avere ricevuto minacce. Le indagini dei carabinieri del Ros e di quelli di Como hanno portato nel corso dei mesi, in fasi diverse, all'arresto di dieci persone, tra cui i due presunti esecutori materiali dell'omicidio e gli autori degli atti intimidatori compiuti prima del delitto. Ma sul movente era rimasto il giallo.
 

giovedì 18 agosto 2016

Madre malevola: condannata a risarcire il marito

Alienò il figlio: condannata a risarcire 50.000 euro – La Nazione 17.8.2016


Il magistrato che ha emesso
la sentenza (fonte: www.lanazione.it)


La Spezia, 17 agosto 2016 Per quindici anni si è visto impedire dall’ex moglie ogni contatto col figlio, ostacolato in ogni tentativo di poter esercitare il ruolo di padre e contribuire alla crescita di quel bambino di soli quattro anni, oggi diciannovenne.

 Una storia di privazioni affettive che nei giorni scorsi ha visto il giudice del tribunale della Spezia, Lucia Sebastiani, condannare l’ex moglie al pagamento di un risarcimento a favore dell’uomo di cinquantamila euro. Una somma importante, ma come sostenuto dallo stesso giudice nella sentenza “si tratta di un danno che in realtà non potrà mai essere adeguatamente ristorato per equivalente”.

 Per la Sebastiani, la privazione affettiva “si è protratta per numerosi anni, obiettivamente i più belli della crescita ed evoluzione psicofisica del minore, ed è destinata presumibilmente a protrarsi anche in futuro”. La Sentenza in sede civile (alla donna è stata imposto anche il pagamento di 5.500 euro di spese legali) segue quella penale, emessa nel 2008, che vide l’ex moglie condannata.
La vicenda, tutta spezzina, affonda le sue radici nel 2002, con la sentenza di separazione della coppia che prevedeva l’affidamento esclusivo del minore alla madre, e la possibilità per il padre di tenerlo con sé per un giorno alla settimana, nelle principali festività, e per sette giorni consecutivi durante le vacanze natalizie e in quelle estive. Le condizioni vengono ampliate in sede di divorzio, e ulteriormente modificate nel 2011, con il tribunale che dispone per il giovane l’affidamento condiviso. Decreti e disposizioni non cambiano però la situazione, con il padre impossibilitato a vedere il proprio figlio, ostacolato dall’ex moglie. Impossibile, in queste condizioni, far nascere e sviluppare il normale rapporto padre-figlio.

Così l’uomo, dopo la sentenza penale di condanna a carico dell’ex moglie per mancata esecuzione dolosa del provvedimento del giudice, si è rivolto al giudice civile, affidandosi all’avvocato spezzino Maria Cristina Simeone. Con la Sebastiani che ha vergato una sentenza ‘forte’. Al padre “è stato negato un sereno rapporto genitoriale col minore – si legge nelle conclusioni –, ed è stato privato di tutti i momenti (belli e non) in cui avrebbe potuto essere presente nella vita del figlio, irrecuperabili per sé e per lo stesso ragazzo”.

Da qui la decisione del giudice, che pure ha riconosciuto “una certa frequentazione tra padre e figlio”, di condannare la donna al pagamento di cinquantamila euro di risarcimento per danni non patrimoniali, pari a circa tremila euro per ogni anno in cui all’uomo è stato impedito di costruire un rapporto affettivo col proprio figlio. “La gioia di poter veder crescere mio figlio e poterne contribuire allo sviluppo, comunque, non me le potrà ridare indietro nessuno”, commenta il padre alla Nazione, commentando la sentenza.

MATTEO MARCELLO
Fonte/Credits: http://www.lanazione.it/

mercoledì 17 agosto 2016

Femen e nazismo Ucraino

Femen e nazisti ucraini uniti nella lotta

Matteo Luca Andriola – 16 maggio 2014
Quelle che vedete sulla foto sono le cosiddette “Femen”, un “movimento di protesta” ucraino fondato a Kiev nel 2008, noto all’opinione pubblica internazionale per il fatto di manifestare seminude contro il sessismo e il “maschilismo”. E’ risaputo e documentato che le Femen sono finanziate da George Soros, multimiliardario a capo del suo Open Society Institute.Al fianco delle Femen esistono altri fenomeni mediatici spacciati per “progressisti”, come il gruppo femminile punk russo delle “Pussy Riot”, arrivate addirittura ad infilarsi dei polli nella vagina in un supermarket moscovita, la cui leader, Nadia, è ascesa al top dell’ “underground” moscovita dopo una performance sessuale dal vivo – stiamo parlando di sesso di gruppo a scopo dimostrativo — al Museo biologico di Timiryazev, a diciotto anni, dato che l’uso del sesso e delle sue varianti sembra caratterizzare con successo certi movimenti di protesta nell’ est europeo, i quali sostengono di battersi contro «il turismo sessuale, il sessismo e altre discriminazioni di genere», ma in effetti, con i loro comportamenti provocatori, non fanno altro che alimentare il luogo comune della particolare licenziosità e dissolutezza delle donne dei paesi est europei.
Queste manifestazioni sono in linea con quelle del collettivo Femen, alcune esponenti del quale ritratte nella foto “all’opera” durante il colpo di stato liberista-nazifascista in Ucraina, mentre urinano sul volto di un Presidente legittimamente eletto solo un anno prima. Nella foto che pubblichiamo di seguito sono invece immortalate alcune delle loro principali esponenti, attiviste dell’ultradestra ucraina, insieme a Bogdan Titskij, capo del Comitato Nero, organizzazione di estrema destra ucraina i cui membri furono condannati per l’incendio doloso di un ostello per studenti africani e per aver attaccato un centro della comunità ebraica. Lo stesso movimento che dall’aprile del 2010 stava considerando l’idea di diventare un partito politico per partecipare attivamente alle elezioni parlamentari, sventolando nelle giornate di Euromaidan la bandiera di Optor, gruppo legato al già citato Soros:
Questi fenomeni mediatici vengono utilizzati contro i governi non allineati agli interessi USA e nel nostro paese sono molto popolari anche e soprattutto nella cosiddetta “sinistra radical”, “neofemminista” (nulla a che vedere con le storiche battaglie delle donne socialiste e comuniste contro ogni forma di sfruttamento, per l’eguaglianza, la libertà e i diritti di tutte e di tutti, ), cosiddetta “libertaria”, “dirittoumanista”, salottiera e presenzialista, e anche in alcuni ambienti della cosiddetta “sinistra antagonista”.Come già detto, dietro a questi fenomeni c’è il multimiliardario George Soros, cioè la 22esima persona più ricca del mondo con un patrimonio stimato in 20 miliardi di dollari, per lo meno secondo la rivista americana di economia e finanza, Forbes.Soros ha contribuito alla destabilizzazione dell’URSS, finanziando Solidarnosc in Polonia, spina nel fianco dell’impero sovietico, e sostenuto attivamente il movimento dissidente Charta 77 in Cecoslovacchia. E’ stato uno dei 1400 membri del Council of Foreign Affairs, un circolo speciale nato all’indomani della Prima guerra mondiale, che raccoglie eminenti personalità della società economica e culturale dell’occidente (banchieri, rettori universitari, direttori di giornali, direttori delle fondazioni Ford, Rockefeller e, fra gli altri, i presidenti americani Hoover, Eisenhower, Johnson e Nixon e i segretari di stato americani Edward Reilly Stettinius, Dean Acheson, John Foster Dulles, Christian Archibald Herter e Dean Rusk).Soros è sostenitore e finanziatore delle varie Rivoluzioni Colorate (come sostiene candidamente Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/George_Soros), che hanno sconvolto l’equilibrio post-sovietico permettendo l’ingresso del grande capitalismo occidentale in Europa Orientale, nonché fautore della destabilizzazione e della disgregazione dell’ex Jugoslavia.1
Emblematico il caso della Rivoluzione delle rose in Georgia. In Italia è noto alle cronache anche perché in lizza tra i possibili acquirenti dell’A.S. Roma, ma pochi sanno che egli è acquirente di ben due miliardi di buoni del tesoro europei, soprattutto italiani.2
Uomo liberal – nell’accezione “statunitense” del termine, cioè liberaldemocratico e “progressista” – Soros è la punta di diamante di quella penetrazione USA che evita l’uso dell’intervento militare (i casi Iraq e Afghanistan insegnano, in quanto controproducenti per l’economia statunitense: costa meno destabilizzare un paese piuttosto che bombardarlo e occuparlo) utilizzando il dispiegamento del sistema dell’aiuto umanitario, che si presenta cooperativo per definizione e apportatore di valori “progressisti e di sinistra”: diritti umani, società civile, parità di genere, democraticizzazione, ecc.Di quale “sinistra” è sostenitore Soros? Della sinistra liberale di derivazione popperiana, dato che era allievo del filosofo Karl Popper alla London School of Economics.
Soros ha lasciato il segno soprattutto come speculatore finanziario, dato che nel Mercoledì Nero del 16 settembre 1992 vendette allo scoperto ben 10 miliardi di sterline, quando il padre dell’euro, l’ecu, poneva le basi per l’odierno sistema monetario attraverso il Sistema Monetario Europeo. In poche parole, Soros ha contribuito a spingere fuori dell’eurozona la Gran Bretagna, speculando anche sulla nostra lira, per inciso, in quello stesso mese di settembre. La qual cosa fece sperimentare all’Italia la “medicina” lacrime e sangue del “Dott. Sottile”, cioè l’esponente socialista Giuliano Amato, braccio destro di Bettino Craxi e futuro ulivista.Ma le nostre Femen – lautamente pagate da Soros – sono indifese, dato che solo il maschio, nella loro logica, è portatore di violenza! Quindi, sempre seguendo la stessa logica, dovrebbero essere del tutto estranee ai gravi episodi di violenza che si stanno verificando in Ucraina. Tutt’altro! Le nostre “femministe” «sono delle note transfughe, passate dai movimenti giovanili comunisti a quelli ultranazionalisti, ma anche una nuova forma di “tecnologia politica: una manipolazione politica estrema. Gli strumenti sono familiari: narrazione, disinformazione, e interpolazione …”, marketing ed organizzazione dei media sarebbe il termine oggi appropriato. Tra costoro troviamo Oksana Chashko (co-fondatrice delle FEMEN), Anna Hutsol (co-fondatrice delle FEMEN) e Viktor Svjatskij (l’uomo presentato come uno dei burattinai all’ombra del movimento FEMEN)».3
Nel 2006, dopo il crollo elettorale del PC ucraino, Anna Hutsol e Viktor Svjatskij, dopo aver animato nel 2005 movimenti come il Centro per le prospettive della gioventù (un sindacato) e Nuova Etica, che diverranno poi il collettivo Femen, si avvicinarono al partito social-patriottico Grande Ucraina, con posizioni tutt’altro che progressiste, cosa che dovrebbe far riflettere i sostenitori “arcobaleno” di casa nostra:Quando le FEMEN furono avviate a Kiev, nella primavera 2008, Andrej Kolomets (“Andrew Kolomyjec”), uno dei quadri di Grande Ucraina (movimento rosso-bruno da cui provengono le FEMEN) entrò subito nel consiglio d’amministrazione. Sarà uno dei più “costanti sostegni finanziari” delle attiviste. “Al fine di garantirne l’indipendenza”, disse molto seriamente … aggiungendo che il movimento “non era mai scaduto nel razzismo”. Vedasi Mickael Orlyuk un altro quadro del partito, e anche partecipe delle proteste delle FEMEN. “Un certo numero di tesi della Grande Ucraina viene ripreso dalle FEMEN. Immigrazione: l’esenzione dei visti per i cittadini europei che visitano l’Ucraina è un disastro, dovrebbero chiudere le frontiere. La Grande Ucraina denuncia le “centinaia di migliaia di immigrati clandestini (che) ci minacciano”. Le FEMEN si ponevano al suo fianco, con l’aiuto dell’influenza aviaria “all’ingresso di stranieri nel nostro Paese.” “Xenofobia? Forse”, rispose Anna Hutsol. Sull’esempio della Grande Ucraina, le FEMEN sostengono la pena di morte per i ‘sadici’.” Infine, ci sono i turchi contro cui Igor Berkut (leader di Grande Ucraina) ritiene che la guerra sia inevitabile. Le FEMEN, da parte loro, li hanno avuti a lungo come primi nemici, in nome della lotta al turismo sessuale.4
A questi contatti, che la portano all’abbraccio con i carnefici di Odessa, la nostra Anna Hutsol aggiunge successivi contatti economici con gli ambienti economici di Washington, cioè l’Open World Leadership Institute, organismo che «permette ai leader russi di sperimentare la democrazia e la libera impresa in azione nelle comunità degli Stati Uniti in una visita di 10 giorni. I partecipanti al World Open studiano ruoli e relazioni tra i tre diversi livelli e rami del governo degli Stati Uniti. Esaminano anche in che modo il settore privato e no-profit negli Stati Uniti contribuiscano a soddisfare le esigenze sociali e civiche».5
Il think tank è presieduto da James Hadley Billington, un accademico e bibliotecario statunitense ed ex membro del consiglio del comitato di redazione della rivista Foreign Affairs, di David Rockfellers, uomo notoriamente di “sinistra”.6
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1 R. Göbel, Il ruolo della Germania nella distruzione della Jugoslavia, in Marxistische Blätter – Fogli marxisti, marzo 1995.
2 «George Soros ha fatto incetta di bond italiani comprandoli da Mf Global, la società di brokeraggio finita di recente in bancarotta. Due miliardi in buoni del Tesoro europei, soprattutto italiani, sono finiti nelle mani del finanziere americano dopo che quest’ultimo li ha comprati sulla piazza londinese da Kpmg Llp, l’amministratore che gestisce la bancarotta di Mf Global. E’ quanto rivela il Wall Street Journal, secondo cui l’ottantunenne uomo d’affari, col suo team d’investimento del Soros Fund Menagement, ha comprato 2 miliardi di dollari in bond (sui 6,3 mld in mano alla società prima del fallimento) a un prezzo inferiore ai valori di mercato in una transazione che ha coinvolto anche Jp Morgan, ammontare ragguardevole, se si pensa che il Soros Fund Management gestisce, a quel che si sa, 5,8 miliardi di dollari». M. Zola, ECONOMIA: George Soros, filantropo e speculatore, compra bond italiani, in East journal, 25 dicembre 2011.
3 http://aurorasito.wordpress.com/2014/01/24/la-femen-legate-allestrema-destra-ucraina-e-ai-think-tank-degli-usa/
4 Ibidem.
5 Cfr. http://www.openworld.gov/sites/default/files/openworld_2008_Annual_Report_0.pdf, report a p. 7, dove compare il nome di Anna Hutsol.
6 Ibidem, p. 10.

martedì 2 agosto 2016

Donne che maltrattano gli uomini: lite atlantica tra femministe

Mentre anche RTL102.5 si unisce al mantra delle femministe (video),

oltre Atlantico si svelano gli altarini.
http://27esimaora.corriere.it/16_luglio_28/donne-che-maltrattano-uomini-lite-atlantica-femministe-0cb198b8-54f0-11e6-b121-f0f6105424ab.shtml?cmpid=SF020103COR



Donne che maltrattano gli uomini
Lite atlantica tra femministe


Marina Turi 
 
 «Le femministe trattano male gli uomini». È il titolo dell'articolo che critica la deriva radicale del movimento per l'uguaglianza delle donne negli Stati Uniti e che sta indignando le femministe spagnole. L'autrice è la scrittrice americana Cathy Young, a tradurlo e pubblicarlo in Spagna ci ha pensato il quotidiano El País e nell'afosa fine di luglio si anima la polemica.
Cathy Young parte dall'assunto che il femminismo – e ne parla come se ne esistesse uno solo, monolitico e onnicomprensivo – è ormai fissato con gli uomini che si comportano male. Con il loro modo di parlare, il modo con cui affrontano le relazioni, anche il modo in cui si siedono sui mezzi pubblici, con quelle loro gambe sempre aperte. Ormai non condannare i difetti maschili è considerato un atto di complicità. Così si alimenta la disuguaglianza tra uomini e donne, questi attacchi agli uomini provocano l'indisponenza di molti maschi – e di alcune donne - e li spinge verso le critiche al femminismo che, a volte, si mescolano con le ostilità contro le donne. Tutto ha avuto inizio, secondo l'autrice, con il femminismo radicale degli anni '70, con quello slogan ricorrente - «il personale è politico» - che ha fomentato l'ondata di rabbia femminile. Ma ora si è raggiunto un livello preoccupante: le teorie femministe radicali, che ritengono le civiltà occidentali moderne espressione del patriarcato, vengono amplificate dall'uso delle reti sociali, e uscendo dall'ambito di frange accademiche, si diffondono incontrollabili. Non mancano dovizia di riferimenti a casi di misandria in rete e non, citazioni d'autore e di studi sull'utilizzo della parola uomo, in inglese, come prefisso dispregiativo.
L'iperbole del ragionamento viene raggiunta quando, parlando delle prossime elezioni americane, Cathy Young arriva a sostenere che non è assurdo pensare che parte dell'appoggio a Donald Trump sia proprio dovuto ad una reazione a questo femminismo radicale.

Sono fioccate le critiche subito dopo la pubblicazione, le prime nei confronti proprio del quotidiano accusato di riportare posizioni che squalificano i femminismi. Tra le proteste riportate dal giornale, la scrittrice catalana Laura Freixas è la più severa: trova allarmante che quando migliaia di donne in tutto il mondo muoiono assassinate per mani maschili, per citare solo il sintomo più scandaloso della disuguaglianza, El País pubblichi un articolo che attacca non i responsabili, per azioni o omissioni, di questo stato di cose, ma le femministe che lo denunciano. Inoltre, quel dare voce a una donna che difende tesi antifemministe è una vecchia e sgradevole strategia patriarcale. 

Una trappola in cui un giornale come El País non sarebbe dovuto cadere. E poi tante critiche di merito ai contenuti dell'articolo, perché le femministe spagnole non si sentono proprio in questa dinamica, in questa contrapposizione con il maschio. Su qualche tribuna femminista online l'autrice viene etichettata come guardiana del patriarcato, che vede gli uomini come vittime passive del sistema, dei poveri maschi che si sentono quasi obbligati a discriminare, a controllare, a violare, ad uccidere. Alcune sostengono che l'autrice dell'articolo chieda alle donne di essere figlie docili del patriarcato e quindi empatiche con i propri dominatori. Il livello di irritazione nei confronti dell'articolo è alto, si parla di tossicità patriarcale per nascondere le vere cause delle violenze e disuguaglianze che subiscono le donne, per focalizzare tutta l'attenzione sul disagio di chi le esercita, il disagio dei maschi.
Poi un uomo, sulla rubrica Donne di El Pais, scrive una lettera gentilmente indirizzata alla signora Cathy Young. Lui sente il bisogno, come uomo femminista, di ricordare che il femminismo tratta bene quegli uomini che hanno capito che l'uguaglianza è una questione di cittadinanza e non un semplice requisito, anche, della metà femminile. Lui è Octavio Salazar, e si definisce, oltre che femminista, padre queer e costituzionalista eterodosso
È docente di diritto costituzionale presso l'università di Cordoba e non si stanca di ripetere ai suoi studenti che il nemico del femminismo non sono gli uomini, ma il patriarcato. Quella struttura politica, economica, giuridica e culturale che considera, da sempre, i maschi come una metà privilegiata. Parla di patriarcato come ordine sociale che si traduce in evidenti relazioni di potere che ci mal-educano, generando comportamenti in molti uomini, e in alcune donne, che contraddicono e frenano una lotta per l'uguaglianza che dura da quasi tre secoli. Ricorda a Cathy Young e a tutte e tutti che il femminismo, ovviamente, è radicale, perché pretende rimuovere le radici delle ingiustizie tra i sessi, ed è rivoluzionario, perché vuole sovvertire un ordine androcentrico e patriarcale; ma questo non significa che gli uomini debbano intenderlo come un'aggressione contro di loro, né una guerra che alla fine avrà un vincitore o una vincitrice. 
Una risposta sottile e garbata a tutte le donne che sembrano non aver capito che se stanno dove stanno è proprio grazie al femminismo.

Alla Camera il busto della Boldrini: "Così sapranno chi sono"

http://www.liberoquotidiano.it/news/politica/11930691/laura-boldrini-busti-donne-camera-specchio-ragazze-potranno-sognare.html



Il busto di Laura Boldrini. No, non siamo ancora arrivati a doverci sciroppare il busto della presidenta, come nelle migliori dittature, ma "i busti" della presidenta, quelli delle donne, che ha voluto piazzare alla Camera nel nome della sua sgangherata lotta pseudo-femminista. Battaglia che la ossessiona. Un vecchio pallino, quello dei busti, che lady Boldrinova ha spiegato per filo e per segno ai microfoni di RTL 102.5, dove si è dilungata sulla tanto agognata (da lei) "Sala delle donne".
"Le donne nelle istituzioni sono entrate nel '46 - ha premesso con incedere indolente -, ma se oggi chiedi a una ragazza di queste donne probabilmente avrà problemi a fare qualche nome. E questo perché le istituzioni non hanno dato rilievo giusto a queste donne. A Montecitorio c'è un corridoio di busti di uomini delle istituzioni, non ce ne sono di donne, non ce n'è traccia e ho pensato che bisognava compensare, riconoscere visibilità alle nostre 21 donne costituenti, alle sindache del '46". Busti in arrivo, dunque.
Ma non è tutto, perché l'intemerata della Boldrini è passata con disinvoltura dai busti agli specchi. Sì, agli specchi. Parlava ancora della "Sala delle donne", e ha chiosato alzando il metaforico ditino: "Abbiamo messo anche degli specchi, così che ogni ragazza, specchiandosi, può immaginare la carica alla quale potrebbe ambire: se studiano e si impegnano nulla impedisce loro di arrivare ai vertici delle istituzioni", ha spiegato. Lo specchio-specchio delle sue brame, insomma, piazzato dalla Boldrinova alla Camera per far sognare il gentil sesso (come se il gentil sesso avesse bisogno di uno specchio, che per giunta ha un sapore un po' beffardo).

giovedì 16 giugno 2016

"Padre nostro è pietra angolare della preghiera".

Pope Francis general Audience June 08, 2016

Fonte: http://it.aleteia.org/2016/06/16/papa-francesco-padre-nostro/?ru=807a990a10841d520da01654ee5498b6

Non sprecare parole come i pagani, non pensare che le preghiere siano “parole magiche”. Papa Francesco ha preso spunto dal Vangelo odierno, in cui Gesù insegna la preghiera del “Padre Nostro” ai suoi discepoli per soffermarsi sul valore del pregare il Padre nella vita del cristiano. Gesù, ha detto, “indica proprio lo spazio della preghiera in una parola: Padre”.
Gesù si rivolge sempre al Padre nei momenti forti della sua vita
Questo Padre, ha osservato, “che sa di quali cose abbiamo bisogno, prima che noi le chiediamo”. Un Padre che “ci ascolta di nascosto, nel segreto, come Lui, Gesù, consiglia di pregare: nel segreto”.
“Questo Padre che ci dà proprio l’identità di figli. E quando io dico ‘Padre’ ma arrivo fino alle radici della mia identità: la mia identità cristiana è essere figlio e questa è una grazia dello Spirito. Nessuno può dire ‘Padre’ senza la grazia dello Spirito. ‘Padre’ che è la parola che Gesù usava nei momenti più forti: quando era pieno di gioia, di emozione: ‘Padre, ti rendo lode, perché tu riveli queste cose ai bambini’; o piangendo, davanti alla tomba del suo amico Lazzaro: ‘Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato’; o poi, dopo, alla fine, nei momenti finali della sua vita, alla fine”
“Nei momenti più forti”, ha evidenziato il Papa, Gesù dice: Padre, “è la parola che più usa”, “Lui parla col Padre. E’ la strada della preghiera e, per questo – ha ribadito – io mi permetto di dire, è lo spazio di preghiera”. “Senza sentire che siamo figli, senza sentirsi figlio, senza dire Padre – ha ammonito – la nostra preghiera è pagana, è una preghiera di parole”.
Pregare il Padre è la pietra d’angolo, Lui conosce ogni nostro bisogno
Certo, ha soggiunto, si possono pregare la Madonna, gli angeli e i Santi. “Ma – ha ammonito – la pietra d’angolo della preghiera è Padre”. Se non siamo capaci di iniziare la preghiera da questa parola, ha avvertito, “la preghiera non andrà bene”:
Padre. E’ sentire lo sguardo del Padre su di me, sentire che quella parola ‘Padre’ non è uno spreco come le parole delle preghiere dei pagani: è una chiamata a Colui che mi ha dato l’identità di figlio. Questo è lo spazio della preghiera cristiana – ‘Padre’ – e poi preghiamo tutti i Santi, gli Angeli, facciamo anche le processioni, i pellegrinaggi… Tutto bello, ma sempre incominciando con ‘Padre’ e nella consapevolezza che siamo figli e che abbiamo un Padre che ci ama e che conosce i nostri bisogni tutti. Questo è lo spazio”.
Francesco ha così rivolto il pensiero alla parte in cui nella preghiera del “Padre Nostro”, Gesù fa riferimento al perdono del prossimo come Dio perdona noi. “Se lo spazio della preghiera è dire Padre – ha rilevato – l’atmosfera della preghiera è dire ‘nostro’: siamo fratelli, siamo famiglia”. Ha così ricordato cosa è successo con Caino che ha odiato il figlio del Padre, ha odiato suo fratello. Il Padre, ha ripreso, ci dà l’identità e la famiglia. “Per questo – ha affermato il Papa – è tanto importante la capacità di perdono, di dimenticare, dimenticare le offese, quella sana abitudine ‘ma, lasciamo perdere… che il Signore faccia Lui’ e non portare il rancore, il risentimento, la voglia di vendetta”.
Ci fa bene fare un esame di coscienza su come preghiamo il Padre
“Pregare il Padre perdonando tutti, dimenticando le offese – ha evidenziato – è la migliore preghiera che tu possa fare”:
“E’ buono che alcune volte facciamo un esame di coscienza su questo. Per me Dio è Padre, io lo sento Padre? E se non lo sento così, ma chiedo allo Spirito Santo che mi insegni a sentirlo così. Ed io sono capace di dimenticare le offese, di perdonare, di lasciar perdere e se no, chiedere al Padre ‘ma anche questi sono i tuoi figli, mi hanno fatto una cosa brutta… aiutami a perdonare’?. Facciamo questo esame di coscienza su di noi e ci farà bene, bene, bene. ‘Padre’ e ‘nostro’: ci dà l’identità di figli e ci dà una famiglia per ‘andare’ insieme nella vita”.

venerdì 27 maggio 2016

Torino, sì dei giudici a due stepchild adoption: "Bambini sereni, sono già famiglie di fatto"


Torino, sì dei giudici a due stepchild adoption: "Bambini sereni, sono già famiglie di fatto"
Adesso sono una famiglia anche per la legge, pur senza la stepchild adoption. I giudici della corte d’Appello di Torino hanno detto sì alla "adozione incrociata" da parte di due mamme omosessuali: le due donne, conviventi dal 2007 e sposate in Danimarca nel 2014, che volevano adottare le rispettive figlie - nate con inseminazione artificiale - oggi di 7 e 5 anni. Contemporaneamente la Corte ha detto di sì anche a un’altra donna, anch'essa lesbica, che aveva chiesto di adottare il figlio di cinque anni della compagna che nel 2015 aveva sposato in Islanda. La decisione della Sezione minorenni, presieduta dal giudice Carmen Mecca, arriva dopo che in primo grado le domande erano state respinte, ma anche dopo il successivo parere favorevole della Procura generale.

Il sostituto procuratore generale Giulio Toscano aveva espresso parere favorevole in udienza per tutte le coppie, in quanto il codice gia’ prevede questa possibilità semplicemente applicando la norma prevista “in casi particolari”, ovvero l’opportunità di adozione anche da parte di qualcuno che non sia un genitore biologico: “Non c’è uno stato di abbandono, esiste un forte legame affettivo, sono già una famiglia. Si impone, assai semplicemente, la tutela di una situazione di fatto”. Le coppie di donne sono assistite dagli avvocati Antonio Dionisio, e Fabio Deorsola. I giudici vanno anche oltre, citando nelle loro motivazioni anche la Corte europea dei diritti dell’uomo “che fornisce una definizione del concetto di vita familiare fondamentalmente ancorata ai fatti e non tanto basata su condizioni giuridiche”; e ancora “nessun rilievo può avere la circostanza che il ruolo familiare sia formato da un’unione affettiva eterosessuale ovvero tra persone dello stesso sesso”. Un principio, questo, accolto anche dalla Corte di cassazione in una pronuncia del febbraio del 2015. Per esprimersi, la Corte d’appello ha comunque valutato tutti gli aspetti pratici dei casi affrontati, parametri come la situazione personale ed economica delle richiedenti, la salute, l'ambiente familiare, valutando come “i minori siano sereni e allegri, ben accuditi, in un ambiente familiare altrettanto lieto”.

"Siamo felicissime. Senza questa sentenza il nostro bimbo sarebbe rimasto con un solo genitore. Anche se è il frutto di un progetto di vita comune". E' il commento di una delle coppie di donne che hanno ottenuto dalla Corte d'Appello di Torino il via libera alla stepchild adoption.  "Lo stralcio della Cirinnà - hanno aggiunto - per noi fu un duro colpo ma quella legge non ci avrebbe dato nulla di più e nulla di meno di questa sentenza, anche se, naturalmente, il percorso sarebbe stato più semplice".

Dalla Lega Nord arriva subito una reazione critica: "Quello che avevamo detto si sta drammaticamente verificando - dice il capogruppo alla Camera, Massimiliano Fedriga - La norma sulle unioni civili avvalla questa sentenza e di fatto apre a adozioni gay e utero in affitto. La presa in giro di Alfano che aveva raccontato che tutto era risolto, oggi viene smentita e certifica che ha venduto qualsiasi valore alla poltrona. Per garantirsi i favori di Renzi hanno svenduto il diritto dei bambini di avere un papà e una mamma". Aggiunge Maurizio Sacconi (Ncd), presidente della Commissione lavoro del Senato: "Le sentenze della Corte d'appello di Torino con cui viene riconosciuta la stepchild adoption confermano i timori indotti dalla legge sulle unioni civili. La giurisprudenza si orienta in prevalenza a considerare i simil-matrimoni come la premessa delle adozioni. Di qui l'iniziativa referendaria per abrogare la prima parte della legge".

giovedì 19 maggio 2016

Dopo l'Occidente - I.Magli



Uno sguardo da lontano

Il triste mestiere dell'antropologo 
 
Spetta all'antropologo studiare le culture «morte». O meglio, spetta all'antropologo studiare quelle culture che, anche quando sono a noi contemporanee, tuttavia appaiono morte. Ben diversamente dall'archeologo, che studia quelle dell'antichità, ossia quelle morte davvero, l'antropologo si è trovato di fronte a un fenomeno assolutamente sconosciuto prima nella storia, il fenomeno di culture «vive da morte». È stata così grande la sua sorpresa che sul primo momento ha pensato si trattasse di residui di un passato antichissimo, appartenenti a un'Era primordiale, selvaggia, primitiva. Come mai apparivano morte? Non tanto perché prive di tecnologia, di industria, di scambio commerciale, quanto perché non hanno mai neanche immaginato di potersi estendere al di fuori del proprio gruppo. Si tratta di popoli, in genere poco numerosi, che considerano il proprio modo di essere, di vivere, di comportarsi giusto e perfetto fin dall'inizio, dunque immutabile, e destinato soltanto a loro; ma che in realtà sono riusciti a conservarsi sempre uguali a se stessi soltanto perché privi di contatti con gruppi estranei, isolati. Isolati in quanto si trovano in territori estesissimi quasi privi di popolazione, ma anche perché non si avventurano al di fuori dello spazio dove vivono. Sono privi di «curiosità», insomma. Il motivo è sempre lo stesso: la curiosità nasce in chi ritiene che esistano cose diverse da quelle che già conosce e che sia importante scoprirle perché implicitamente pensa che potrà forse adottarle, farle proprie. Laddove si ritiene, invece, che non si debba mai cambiare nulla al ciclo dell'esistenza perché fissato alla «perfezione dell'inizio», è evidente che ogni sforzo è concentrato sulla ricerca sempre più puntuale di questo inizio, sulla ritualità della «ripetizione». Insomma la curiosità nasce fuori dal «Sacro».

Appena però una cultura viva, dominatrice, carica della volontà di espandersi, ha investito le culture primitive con la propria forza, non c'è stata battaglia: si sono avviate verso l'estinzione.
Sono queste, dunque, le società che l'antropologo ha studiato, senza possedere nessuna traccia precedente, nessun punto di riferimento nella storia. Si è trovato così a guardarle dall'esterno pur standovi dentro, con quello «sguardo da lontano» che è il più obiettivante possibile e al quale si deve il metodo particolare degli antropologi: «l'osservazione partecipante». È diventato chiaro, con il passare del tempo e con il sommarsi di sempre maggiori conoscenze intorno ai popoli «primitivi», che tutte le culture «vive da morte» possono, e anzi debbono, essere definite «etnologiche», ossia «passate» anche se presenti, in qualche modo fuori dalla storia o prima della storia, e che è la distanza, la rottura posta dalla morte, che ce le fa percepire definitivamente estranee.

Inutile sottolineare il fatto che è l'antropologo, l'osservatore d'Occidente, che le vede così. Loro, i «primitivi», hanno sempre ritenuto di essere vivissimi, anzi garantiti in eterno per la propria vita in quanto nel tempo «ciclico», nel tempo della ripetizione, non si muore mai. È stato l'incontro con noi che li ha uccisi. Li ha uccisi, anche quando non li abbiamo sterminati fisicamente, perché è andata in frantumi la loro sicurezza di vivere la vita «giusta», quella garantita dalla perfezione originaria.
Quello dell'antropologo è dunque un mestiere triste, perché si sente acutamente, malgrado l'alone di romanticismo con il quale l'Occidente ha investito il mondo primitivo, il senso di morte che esso porta dentro di sé. Il suo destino è segnato. Per quanto i popoli «vivi» tentino di non farli estinguere, di aiutare i gruppi che ne sono portatori a conservare i propri costumi, la propria religione, la propria lingua – come succede per esempio in America con gli Indios dell'Amazzonia, o con i Rom in Europa –, il loro è soltanto uno pseudorispetto, una specie di imbalsamazione e, di fatto, un rifiuto di comunicazione e un errore.

D'altra parte sono i governi attuali che impongono ai propri sudditi questo tipo di comportamento, anch'esso in qualche modo incluso nel «politicamente corretto». L'obbligo ad acquisire, attraverso le norme linguistiche, un sistema di giudizio non corrispondente alla realtà – alla realtà così come viene automaticamente percepita – ha come prima conseguenza che nessuno s'incontri mai con l'altro in ciò che pensa, costretto a passare sempre attraverso la realtà stabilita dal Potere. Questo sistema ha stravolto, falsificandoli, i rapporti fra i popoli, cancellando qualsiasi possibilità di scambio, di aiuto, di fecondazione culturale reciproca.


Politicamente corretto 
 
Il «politicamente corretto» costituisce ovviamente la forma più radicale di «lavaggio del cervello» che i governanti abbiano mai imposto ai propri sudditi. La corrispondenza pensiero-linguaggio è infatti praticamente automatica. Inserire una distorsione concettuale in questa corrispondenza significa impadronirsi dello strumento naturale di vita cui è affidata la specie umana: l'adeguamento del sistema logico cerebrale alla percezione della realtà nella formulazione linguistica dei concetti, impedendone così anche qualsiasi cambiamento e trasformazione. Non sappiamo chi sia stato a ideare un tale strumento di potere per dominare gli uomini e indurli a comportarsi secondo la volontà dei governanti, evoluzione terrificante di quella che un tempo si chiamava «censura».

Terrificante soprattutto perché la censura non è più visibile come tale, nessuno ne è più consapevole: è stata introiettata. È probabile, però, anzi quasi certo, che il laboratorio dal quale è partita l'idea, e la definizione ad hoc, anch'essa iniquamente falsificatrice, di «politicamente corretto», debba trovarsi negli Stati Uniti d'America, anche se nessuno ce ne ha mai parlato. Si tratta in ogni caso del frutto di una intelligenza sadico-criminale che non ha confronti nella storia, messa al servizio di un governo che possiede una larghissima influenza su tutti i governi d'Occidente e, sia pure in forma attenuata, su tutti i governi del mondo; e che ha quindi potuto con facilità portare ovunque il nuovo «ritrovato».

Nessuna voce critica, che io sappia, nessuna protesta, nessuna denuncia si è alzata nei confronti di chi ha, con l'improntitudine di un potere assoluto, imposto il primato del potere politico sul pensiero e sul linguaggio, definendolo esplicitamente come tale: politicamente corretto. Non: «corretto» dal punto di vista politico, ma «corretto» dal Potere. Politica e Potere sono la stessa cosa.

I governanti, dunque, nel mondo della libertà e della democrazia, lo stesso mondo dove si sono sviluppati alcuni dei più importanti studi sul «linguaggio-cervello-comportamento», hanno assunto il diritto a utilizzarne il frutto contro l'uomo. In quello stesso mondo, le persone che sono in grado di valutarne la terribile forza distruttiva, hanno taciuto e tacciono. I sudditi invece, da persone «normali», fornite del semplice buon senso, non soltanto ne percepiscono tutta l'ipocrisia e la finzione – anche quando non possiedono gli strumenti per comprenderne la capacità trasformante – ma lo trovano comunque sopraffattorio e ingiusto per tutti: se stessi e gli altri.

Un popolo, così come ogni singolo uomo, è sempre animato dall'ansia, dal desiderio di comunicare le proprie idee, le cose in cui crede; cerca sempre di convincere tutti quelli che incontra a somigliargli, ad assumere il proprio tipo di vita. Se non lo fa con la violenza, lo fa almeno con la persuasione, con la letteratura, con l'arte, con lo scambio commerciale, con la pubblicità, con le chiacchiere al mercato o intorno al pozzo, in metropolitana, negli spettacoli televisivi. Perché in realtà l'uomo non è mai sicuro di essere nel giusto e trova la conferma ai propri dubbi soltanto se anche altri uomini condividono le sue idee. È la prova più sicura, quella che dà la certezza di essere uguali nell'unica cosa che conta: la «logica», il sistema di verifica del pensiero. Qualsiasi teoria sulla differenza delle razze si blocca infatti davanti a questa constatazione: due più due fa quattro per tutti.
Una cultura è viva soltanto se crede in se stessa e negli uomini in quanto «uomini» nella loro comune identità; se ha la forza di irradiarsi all'esterno, di accrescere il numero di coloro che vi credono e vi si affidano. C'è però un limite a questa possibilità. Un limite posto proprio dal sistema logico dell'uomo di cui stavamo parlando.

Si può sempre apprendere qualcosa da altri popoli, da altri gruppi e farlo proprio, ma ogni sistema culturale integra comportamenti estranei soltanto se questi non sono in contraddizione con il modello di base, se non ne alterano la «forma» significativa. Gli studi compiuti dai maggiori antropologi in questo campo sono ormai dei classici, impossibili da mettere in dubbio. Da Boas a Kroeber a Benedict a Mead a Malinowski a Leroi-Gourhan, non c'è chi non abbia dedicato la maggior parte delle sue ricerche a scoprire e verificare il funzionamento del «sistema significativo» che sostiene ogni modello culturale. Il risultato è stato sempre lo stesso, e non avrebbe potuto non esserlo visto che la «cultura» è il fattore naturale che contraddistingue la specie umana e ne guida i comportamenti. Ogni modello culturale possiede una «forma», nel senso gestaltico del termine, e rigetta perciò gli elementi estranei non compatibili, in analogia con il sistema immunitario di sorveglianza e di identificazione con il quale li rigetta l'organismo biologico. Non appena, quindi, viene meno la reazione di rigetto e il sistema comincia a lasciarsi invadere da elementi appartenenti a sistemi diversi, inizia il suo itinerario verso l'estinzione e manda il tipico segnale che l'antropologo percepisce come «etnologico»: segnale di pseudovita, di «vita morta».


L'eurococco 
 
È il segnale che manda oggi la cultura occidentale. Per questo è l'antropologo ad accorgersene per primo e con maggiore chiarezza di chiunque altro. Ma quasi tutti in Occidente, e in particolar modo in Europa, percepiscono un disagio, un vuoto, cui non sanno dare un nome; un vuoto che li esaspera spingendoli a consumare, consumare, consumare: cibi, mode, parole, tempo, valori, droghe, sesso, vita. O forse: droghe come vita, sesso come vita. Gli stupri casuali, espressione di una violenza finale, quella del desiderio trasformato in odio, i suicidi-omicidi dei giovani, in preda alla pseudopotenza della droga e della velocità nelle cosiddette «stragi del sabato sera», gridano con disperata rabbia l'esasperazione di questo vuoto. Un vuoto che paradossalmente sembra pienissimo.
La fretta divora l'Occidente: l'assillo del non perdere tempo impedisce di accorgersi che in realtà non si produce quasi più nulla delle cose che contano: pensiero, scienza (il continuo sviluppo tecnologico non inganni: la tecnologia è soltanto applicazione della scoperta scientifica, non scoperta in sé), filosofia, letteratura, arte. Il mercato, la pubblicità, gli indici di Borsa hanno preso il loro posto e si ammantano di una «pienezza» di nuovo tipo: cambiano continuamente, aggiornano il mondo, minuto per minuto, della loro instancabile attività, delle loro avventure, delle loro trasformazioni in vincite e perdite, mentre gli uomini, la vita reale degli uomini, delle società, delle Nazioni, proiettata fuori dall'orizzonte di ciò che conta, affonda nell'indistinto, nell'amorfo, nel brulichio di quei frammenti non significanti e senza più nessuna possibilità di concatenarsi fra loro che stupiva e angosciava Robert Musil. È il brulichio delle innumerevoli vite che disintegrano un cadavere.
Una particolare infezione, l'«eurococco», di cui fantasticava Yvan Goll, è partita dalla crisi devastante della Germania e ha contagiato a poco a poco tutta l'Europa, minacciando il resto del pianeta.
Sfruttando il timore di una tale desertificazione è apparso all'orizzonte all'improvviso chi è riuscito a convincere il mondo che le Nazioni, gli Stati... l'Italia, possono «fallire»; anzi, che sono sul punto di fallire.
Parola incredibile, priva di senso riferita a un popolo, a una Nazione, a uno Stato. Nessun «popolo» fallisce. Può morire; e muore. Ma chi osa definire la morte un «fallimento»? Nazione, Stato, sono «figura» dei popoli. Non c'è nessuna Nazione, nessuno Stato, negli indici di Borsa. Non ci sono i popoli, il loro nome, la loro identità, la loro storia, il loro pensiero, il loro lavoro; non ci sono né nascite né morti, non ci sono né amori né pianti; non c'è quella «patria» per la quale si è data la vita cantando; non ci sono né la poesia né la musica; non ci sono, infine, né religioni né speranze di eternità: nulla.
Si chiamano valori di Borsa, ma appunto, usurpando il termine «valore», i governanti-economisti hanno compiuto un'operazione matematicamente invalida: i valori dei popoli non sono riducibili a numeri. Non sono quantificabili in cifre. Non si possono né sommare né sottrarre al capitale delle monete. Una Nazione, insomma, non è il suo Pil.
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Pagina 20

I «bianchi»: impuri infedeli colonizzatori Spetta a un antropologo, dunque, che si trova a vivere oggi come «osservatore partecipante» in mezzo all'Occidente, sforzarsi di «guardarlo da lontano» per descrivere le fasi finali della sua inconsapevole, convulsa agonia.
[...]
Il dubbio che, di fatto, nessuno raccoglierà le tracce della nostra esistenza è diventato con il passare del tempo quasi una certezza. L'Europa, specialmente la parte dell'Europa più attraente, più ricca, più facile da aggredire – quale l'Italia, la Spagna, la Grecia, la Francia, la Germania –, sarà abitata in maggioranza da africani musulmani i quali avranno il piacere e il dovere di eliminare tutto ciò che ci appartiene. Siamo «bianchi», noi, impuri infedeli colonizzatori: ricordiamocelo. Diversi e nemici per definizione coranica, oltre che per gli avvenimenti della storia. È assurda e fuor di senso la reazione con la quale di solito vengono condannate, specialmente dai cattolici e dalla gerarchia della Chiesa, le aggressioni e le stragi di cristiani nei Paesi musulmani, specialmente in Africa e in Medio Oriente. Se ne parla come di gesti di odio verso persone innocenti, che non hanno fatto nulla di male, come se non fosse l'Antico Testamento, e di conseguenza il Corano, a obbligare i propri devoti a combattere e distruggere gli infedeli, i nemici di Dio. Soprattutto se non si unisse a questo comando il retaggio di un passato ancora presente (la crudele ingiustizia dell'aggressione alla Libia, finita con l'uccisione del suo leader, e alla quale ha partecipato, con una delle più sciagurate decisioni politiche di Berlusconi, anche l'Italia, tradendo i suoi patti di amicizia con Gheddafi) che sedimenta nello spirito dei popoli appena usciti dalla colonizzazione.
Il principio — anche questo naturalmente stabilito come valido per tutti dall'Occidente — che le religioni debbano essere tenute fuori da qualsiasi discussione in nome del rispetto reciproco (l'Unione europea lo impone con una legge apposita ma era già stato imposto dalla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo), è in realtà tutt'altro che una forma di rispetto, ma piuttosto un'offesa alla ragione umana e alle acquisizioni psicologiche e cognitive che il divenire della storia porta sempre con sé. Le religioni vanno affrontate e discusse come qualsiasi altra idea e istituzione proprio perché sono sempre collegate alla sfera del potere e su di esse ancora si fondano i costumi e le leggi di gran parte del mondo. Affermare che non possono essere studiate normalmente come qualsiasi altro fenomeno umano significa prima di tutto riconoscere l'esistenza delle divinità, di un Dio o degli Dei; e in secondo luogo — cosa ovviamente inammissibile per chi fa scienza — che possiamo studiare il Sacro presso gli «altri», come abbiamo già fatto, ma che non possiamo farlo presso di «noi».

Fino a quando l'Occidente non si deciderà, e per primi gli Ebrei, a respingere l'idea della «rivelazione» — chiaramente appartenente all'infanzia dell'umanità, ingenua, primitiva, o meglio «etnologica», e che porta con sé l'intangibilità dell'Antico Testamento — non avrà nessuno strumento valido per condannare la violenza dei credenti musulmani. Ovviamente l'avrebbero dovuto fare subito i discepoli di Gesù, mettendo in atto così il suo principale insegnamento. Ma non l'hanno fatto. Il loro primo tradimento è stato proprio questo: rimanere agganciati all'Antico Testamento. Con il solito spirito di dominio l'Occidente adesso pretende che tutto il mondo si adegui a una nuova religione – la sua – chiamata «tolleranza», o meglio «democrazia-tolleranza» (termini che la politica ha deciso di rendere sacramentalmente interscambiabili), che include e copre tutte le altre; scandalizzandosi inoltre e condannando, sempre con le armi americane pronte a sparare, coloro che osano mettere in dubbio che ciò in cui crede l'Occidente sia il meglio per tutti.
Inutile obiettare che anche il concetto di «meglio» è, e non può non essere, relativo. Le istituzioni non lo ammetteranno mai. E come potrebbero? Il Potere o è assoluto, o non è. Si sono schierate tutte, dunque, e per prima la Chiesa cattolica con il suo ancora rilevante peso nella conduzione politica dell'Occidente, contro questo principio. Ma per quanto l'Occidente si ostini a voler conciliare gli opposti, facendoli coincidere con il proprio punto di vista, rimane vero che quasi tutto quello che abbiamo fatto e che ancora facciamo è vietato dal Profeta e di conseguenza è «male» per i credenti musulmani.
Una volta padroni dell'Europa, quindi, i musulmani «giustamente» ne distruggeranno «l'europeità», come è sempre successo quando una cultura è subentrata a un'altra. I cristiani non hanno forse raso al suolo tutti i templi, tutti gli edifici della Roma pagana, appena sono diventati abbastanza forti per poterlo fare? Hanno distrutto perfino ciò che i Romani, con il realismo e la sapienza ingegneristica che li contraddistingueva, avevano costruito al servizio e per il benessere dei popoli sottomessi al loro impero. Strade, mura, ponti, acquedotti, fontane, cloache, terme, giardini, anfiteatri: tutto è stato abbattuto, rifiutandone con l'irrazionalità dell'odio la meravigliosa funzionalità. Quel poco che sarebbe stato troppo faticoso o che non si era in grado di distruggere (non esistevano le bombe allora: per questo il Colosseo è ancora in piedi) è stato abbandonato alla sicura consunzione del tempo. Le misere condizioni di vita dell'Europa medioevale, la spaventosa mortalità infantile, la violenza delle malattie contagiose sono da attribuirsi in gran parte alla mancanza di ogni regola d'igiene, all'assenza di fognature, alla scarsità d'acqua, alla condanna del suo uso da parte della Chiesa che aveva spronato a eliminare le opere idrauliche dei Romani ritenute strumento di libidine e di corruzione.
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L'Era della tabuizzazione femminile [...]
Che sia stato un Maschio il primo ad assumere il potere è un fatto certo, malgrado le appassionate dispute sulla possibilità di un matriarcato primordiale che si sono scatenate durante i primi passi del femminismo. Si erano gettati in questa polemica quasi tutti gli storici, gli etnologi, gli archeologi e i giuristi più importanti, da Bachofen a Morgan, da Maine a Stärke, da McLennan a Westermarck spinti simultaneamente tanto dalla loro riluttanza a immaginare un gruppo di donne combattenti e fornite di potere quanto dal desiderio di non essere ingiusti nei confronti delle donne.
Quello che ha sempre accecato i maschi, nelle discussioni sul potere, è il loro tabù nei confronti dello strumento fondante di ogni potere: il pene. Tutti gli studiosi, anche i più sensibili e acuti nell'analisi della formazione delle culture, «saltano» il pene quale primo strumento guardando immediatamente alla mano. Gli studiosi, infatti, hanno sempre messo l'accento sull'azione della mano per la costruzione della cultura e, pur essendo, almeno fino a oggi, quasi tutti di sesso maschile, non hanno mai preso in considerazione il pene come membro che si muove e agisce all'esterno dell'organismo. Il massimo silenzio anzi lo circonda, in tutte le scienze umane, dall'archeologia all'antropologia alla filosofia alla storia.

Un caso esemplare, da questo punto di vista, è quello di un filosofo famoso come Arthur Schopenhauer il quale si vanta, nel suo saggio intitolato Metafisica della sessualità, di essere il primo ad aver avuto il coraggio di affrontare un argomento tanto scandaloso (il suo saggio è del 1844).
Malgrado questo coraggio, però, è riuscito in tutto il suo trattato a parlare della sessualità senza mai neanche alludere all'esistenza del pene. In realtà il pene è un «utensile» di grande complessità il cui funzionamento è esemplare: un perfetto prototipo di motore fornito dalla Natura in quanto non soltanto si erige e si prolunga, produce calore-energia e «proietta» lontano da sé un getto che colpisce un bersaglio, ma permette all'uomo sia di misurarne internamente la forza d'emissione che di vederne all'esterno il risultato (è molto significativo da questo punto di vista il gioco che tutti i bambini sono soliti fare, sfidandosi a chi riesce a gettare l'orina il più lontano possibile). Non c'è attrezzo, dal più semplice al più complesso, non c'è arma, che non copi sotto qualche aspetto la forma, il meccanismo e la funzione del pene. Non è possibile soffermarsi qui su un argomento così importante ma è probabilmente questo il motivo per il quale i maschi non si sono mai preoccupati e continuano a non preoccuparsi della «fecondazione»: la funzione del pene è quella del motore. Per quanto ci possa far sorridere, in fondo i «nostri» maschi si comportano più o meno come se anch'essi credessero, come i popoli studiati da Malinowski, che sia il vento della primavera a fecondare le donne.

Tutti gli uomini, invece, sanno e hanno sempre saputo che tutta la costruzione umana si fonda sul pene. La più antica rappresentazione che ne possediamo si trova nella grotta sottomarina Cosquer, nei pressi di Marsiglia, datata al 28.000 a.C. La silhouette caratteristica di quello che viene chiamato compuntamente «fallo» (l'uso della lingua straniera serve a stabilire l'evitazione, la distanza di rispetto) la si riconosce ovunque dato che le sue varianti concrete e simboliche sono praticamente innumerevoli, dai menhir alle «pietre erette» alle torri, fino a quei bastioni che portano l'esplicito nome di «maschio». È stato scolpito da qualche felice mano maschile un ultimo trionfale «fallo» anche alla fine del Vallo di Adriano, oltre a tutti quelli sparsi nelle varie torrette di guardia lungo il percorso, e ne avevano ben donde i poveri romani costruttori di un muro lungo 120 chilometri che taglia la Gran Bretagna dal Mare del Nord fino a Bowness nel Mare d'Irlanda.
È vero che per giustificare in qualche modo questa presenza imbarazzante gli studiosi hanno trovato una facile spiegazione attribuendo ai «falli» sparsi dappertutto la funzione di strumenti augurali di buona fortuna, di fertilità, di bonaccioni guardiani degli orti, oppure, come massima concessione alla mascolinità che pur sempre contraddistingue i «falli», la capacità di intimorire il nemico. Nessuno spiega, però, perché mai il nemico dovrebbe intimorirsi alla vista di un simbolo fallico: fra maschi evidentemente, nemici o meno, ci si capisce molto bene.
Il silenzio tuttavia non può far credere che l'uomo non abbia riflettuto sul funzionamento del pene e che non se ne sia servito per la vita concreta come ha fatto con tutte le altre parti del corpo. Le «misure», per esempio, sono state fissate in base a quelle della mano, del piede, del braccio, del passo, del pollice. Tutti gli oggetti composti di una parte che penetra (è sufficiente il linguaggio) e di una che viene penetrata si distinguono abitualmente in «maschio» e «femmina». L'acciarino (strumento che esiste da tempi antichissimi e presso tutti i popoli anche i più «primitivi») è formato di maschio e di femmina, il che permette di supporre che l'idea di poter produrre calore col movimento sfregando un punteruolo in modo accelerato contro una pietra o contro un legno sia stata suggerita dall'esperienza del funzionamento del pene.
È evidente che, partendo dalla mano, si può parlare con disinvoltura dei problemi del potere riguardo alle donne, mentre se si parte dal pene il problema diventa insormontabile. La realtà grida ad altissima voce, però, quale che sia la buona volontà dei maschi nel concedere qualcosa alle donne, che «pene-potenza-potere» sono la stessa cosa.
[...]
L'impurità femminile, dunque, è onnicomprensiva, ossia include nella sua negatività tutte le opposizioni possibili e può essere assunta, perciò, a carattere distintivo di un'Era dell'umanità, così come si è fatto per la pietra, per il bronzo, per il ferro. Il Figlio di Dio è maschio e siede alla destra del Padre. Destra e mascolinità dunque sono positive.
Si è arrivati così a istituzionalizzare, anche senza scriverlo in nessun manuale, sulla falsariga di quanto si faceva nel mondo ebraico, lo spazio di sinistra come spazio delle donne: nelle chiese la crociera di sinistra è stata sempre riservata alle donne fino a quando, con l'epoca moderna, è stata eliminata la separazione; lo stesso è avvenuto negli ospedali; nei gabinetti pubblici, nelle toilette degli aeroporti, lo spazio riservato alle donne è stato, praticamente fino ai nostri giorni, sempre a sinistra. Del resto anche i partiti politici hanno scelto la sinistra per significare la ribellione, la «negatività» nei confronti dell'ordine stabilito e, fino a quando non è diventato più «giusto» essere rivoluzionari piuttosto che conformisti, la sinistra politica non è riuscita a essere vista come una scelta positiva.
Dopodiché è toccato alla «destra» ritrovarsi nella polarità negativa e, per quanti sforzi abbia fatto per togliersi da una posizione così scomoda, non c'è riuscita, ma il motivo è semplice: non è mai stato ammesso che la «destra» potesse essere negativa, visto che il suo primato dipende dall'uso che tutti facciamo della mano destra, per cui è soltanto diventato incerto che cosa fosse realmente la destra politica. Non si poteva e non si può riuscire, come è ovvio, a togliere l'incertezza dalla destra politica: due polarità positive non esistono nelle leggi della fisica... L'ugualitarismo ha portato con sé quello di cui ancora i politici non hanno preso atto: la fine del parlamentarismo oppositivo, o meglio, come si vede benissimo in Italia, dopo la lunga incertezza su che cosa fosse il partito berlusconiano visto che non si voleva assegnargli neanche quel minimo di incerta positività che la destra porta con sé, la fine dei governi parlamentari tout-court.
Il fatto che il «sistema» dell'impurità femminile si trovi presso tante popolazioni musulmane odierne non contraddice l'assunto di cui abbiamo parlato, ossia l'esistenza di un'Era dell'impurità, anzi lo conferma, in quanto l'osservanza «alla lettera» dei precetti del Corano, che rispecchiano quelli del Giudaismo, fa sì che i musulmani si comportino di fatto, almeno in questo campo, come si comportavano i pastori nomadi d'Oriente molti secoli prima di Cristo. Quelle in atto, perciò, sono le prescrizioni sull'impurità femminile fissate nella Bibbia nel libro Levitico.
L'esclusione femminile dalla vita dei maschi era un'istituzione ferrea perfino in quella Grecia classica antica la cui civiltà ha sempre destato l'ammirazione di tutti. Era in vigore, infatti la stessa separazione delle donne dagli spazi abitati dai maschi e da ogni aspetto della loro vita sociale esistente in Oriente, e soprattutto le numerose e gravissime regole riguardanti l'impurità, cosa che permette d'intravedere quell'ambivalenza fra Oriente e Occidente che ha condizionato in modo negativo la vita della Grecia tutte le volte in cui l'Oriente ha prevalso.
Un solo esempio sarà forse sufficiente a dare un'idea di quale fosse il timore dei Greci nei confronti del corpo femminile, un corpo ritenuto «aperto» a potenze che il maschio non può dominare e che pertanto sono per lui terribilmente contaminanti e pericolose. Assistere a un parto era assolutamente vietato e comportava per l'eventuale colpevole la condanna più grave, la stessa condanna che colpiva chi avesse compiuto un omicidio: l'esilio a vita.
Sapere qualcosa su questo aspetto della mentalità dei Greci è molto difficile perché gli storici hanno sempre preferito ignorarlo, quasi che la sola esistenza potesse oscurare lo splendore della sua civiltà. È dipesa da questo stesso presupposto l'abitudine degli storici ad associare in un'unica dimensione culturale e sociale il mondo greco con quello romano. Il concetto di «greco-romano» con il trattino unificante è diventato una formula così comune che sembra impossibile poterla discutere e tanto meno dimostrarne l'erroneità. Di fatto gli storici sono riusciti con il sistema del trattino, anche mentale, a nascondere la sconfitta della Grecia e a stabilire in qualche modo il suo primato su Roma che, come afferma il detto che più piace agli storici, divenne prigioniera di quella stessa Grecia che aveva fatto sua prigioniera. A sentire gli storici è la Grecia la regina di ogni civiltà antica, anche se viceversa la Grecia dimostra di possedere, perfino nel campo per il quale è più famosa, l'architettura, la stessa mentalità primitiva dei più grandi fra i popoli antichi: bellissimi templi e basta. Nessuna strada, nessuna fognatura, nessun acquedotto, nessun ponte, nessun edificio al servizio del popolo... nulla insomma che indichi il possesso del concetto di civiltà. E il timore dell'impurità fa parte del più primitivo atteggiamento nei confronti del Sacro. Differenza assoluta con i Romani, dunque, tanto che Cornelio Nepote, prendendo in giro i Greci, domanda retoricamente, nelle sue Vite dei massimi condottieri: «Chi dei Romani si fa scrupolo di condurre la moglie a un banchetto? O quale matrona si astiene dal farsi vedere nell'atrio della casa o dal frequentare la società? In Grecia, invece, l'uso è ben diverso. La donna non è ammessa a conviti che non siano di congiunti e si trattiene solo nella parte più interna della casa, chiamata gineceo, dove nessuno che non sia parente stretto può entrare».
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«Libri di storia, addio!» [...]
Non c'è bisogno del resto di ricorrere a motivi specifici per essere sicuri che i musulmani provenienti dall'Africa cancelleranno ogni ricordo della civiltà europea: manca nei popoli africani il «senso della storia», o meglio, manca il nostro modo di concepire la storia.
La causa è evidente: il senso della storia, la consapevolezza oggettivante del proprio esistere e il piacere di conservarne la memoria, la scoperta della storia come «coestensiva alla vita» è una delle maggiori conquiste dell'Occidente: «È qui, e soltanto qui, che è avvenuta la più importante delle rivoluzioni, l'apparizione di una presa di coscienza storica. Per coscienza storica intendiamo il privilegio dell'uomo moderno di avere piena consapevolezza della storicità di ogni presente e della relatività delle opinioni... avere senso storico significa pensare espressamente all'orizzonte storico che è coestensivo alla vita che noi viviamo e che abbiamo vissuta». Questa coscienza storica fa parte di un sistema culturale fondato su due fattori essenziali: il tempo in divenire e il valore della vita del gruppo, di ciò che il gruppo ha fatto e fa. Due fattori che hanno formato e formano la ricchezza straordinaria della civiltà europea perché, come abbiamo appena accennato, libera dal Sacro, a cominciare dall'assoluta laicità dei Romani, talmente consapevoli di se stessi che hanno inciso ovunque nella pietra il nome e la data del proprio agire. «Ovunque» non per modo di dire: Europa, Africa, Asia conservano abbondanti vestigia della presenza fattiva dei Romani. I 75.000 chilometri di strade costruiti dai Romani lungo tutto l'Impero parlano del loro perfetto addestramento alla disciplina e al lavoro e della loro indefettibile volontà di conoscere e di far conoscere metro per metro il mondo che conquistavano e che non avevano mai visto prima. Quelle dei Romani erano, per la prima volta nella storia, «strade» nel senso pieno del termine: non soltanto strumenti per il commercio e per la guerra, ma prima di tutto monumenti alla bellezza dell'«andare». Il «cammina, cammina, cammina» delle fiabe era istintivo nel cuore dei Romani, inestricabilmente connesso alla potenza del piede umano che nel momento in cui poggia sulla terra la fa sua, se ne impadronisce, le comunica la propria essenza. Qualsiasi viaggiatore conosce bene questa sensazione di possesso, come sia diversa l'immagine di un qualsiasi luogo quando si può dire: «Qui ci sono stato io». Le strade dei Romani sono, perciò, prima di tutto bellissime, una sfida alla fisica e al tempo stesso l'espressione di un'assoluta fiducia nelle sue leggi. La meravigliosa capacità ingegneristica dei Romani (non sappiamo spiegarci neanche oggi, per esempio, come abbiano fatto a costruire perfettamente diritta la via Salaria e perché volessero che fosse diritta) ha loro permesso di superare tutti gli ostacoli che si trovavano davanti nel realizzare le strade nel modo voluto: partivano tutte da Roma e raggiungevano ogni punto, anche il più lontano, del territorio conquistato. Gli archeologi hanno individuato in Tunisia e in Algeria i resti di 357 città fondate dai Romani alcune delle quali con più di trentamila abitanti, tutte fornite ovviamente di funzionali vie di comunicazione. Un ponte a tre arcate eretto al tempo di Tiberio sul fiume Beja sopporta ancora oggi un pesante traffico. Sono monumenti che in Africa sorprendono più che in qualsiasi altro luogo perché si erigono all'orizzonte di un immenso deserto con la loro sagoma silenziosa e solenne, a testimonianza che anche in Africa, quando sono liberi e padroni di se stessi, gli uomini possono lavorare e produrre opere mirabili. È un messaggio non di oppressione, quindi, ma di incoraggiamento che gli Africani dovrebbero saper cogliere dalla memoria dell'antichità.



Se il senso della storia dipende dal modo collettivo di «vivere il tempo», dal significato globale e dall'importanza che ogni gruppo dà o ha dato alla propria vita, quella maggioranza di Africani che è da tanti secoli musulmana, non sente né il bisogno né il desiderio di fare storia.
I musulmani, infatti, vivono in una dimensione del tempo molto particolare, quella stabilita da Maometto nel momento in cui, affermando di essere, non l'ultimo Profeta, ma l'unico Profeta, ha chiuso, o meglio ha vuotato di senso sia il tempo dell'attesa ebraico sia quello salvato dei cristiani.
È un tempo fermo, quindi, fisso, in base al quale i musulmani sono tornati di fatto (anche se forse non lo sanno) al tempo naturale-ciclico, comune a tutte le popolazioni tranne che agli Ebrei e ai cristiani, a un continuum in cui gli avvenimenti, pur importanti, tuttavia non dipendono dall'uomo ma dalla volontà insindacabile e perfetta di Allah.
L'oggi, insomma, per l'uomo musulmano è, e deve essere, ugualmente buono o cattivo come era ieri e come sarà domani perché così voluto da Allah. È evidente che non esiste «storia» laddove non sono gli uomini a determinarla.
Ma anche per le popolazioni africane non musulmane è difficile capire e amare la storia nel modo in cui la capiamo e l'amiamo noi. Sia quelle «convertite» (termine di comodo che adopero malvolentieri soltanto per farmi intendere ma che sarebbe bene eliminare) al Cristianesimo protestante o cattolico, sia quelle rimaste fedeli alle proprie credenze animistiche e ai propri riti «naturali», si trovano, infatti, in una situazione assai conflittuale nel conservare la memoria di sé e del proprio passato. Il conflitto nasce dal fatto che la loro vita a un certo punto ha subìto un cambiamento totale, una «rottura»: la colonizzazione.
Si tratta di popoli – come per esempio i Bantu, gli Zulu, i Dogon, i Bambara (impossibile qui citarli tutti) – il cui passato è spaccato fra il prima e il dopo della colonizzazione. Il «prima», quello della «storia» orale, dei miti e dei costumi tramandati attraverso i racconti degli sciamani, degli stregoni, degli anziani capitribù, è iniziato ab illo tempore ed è fisso per sempre, nessuno lo può cambiare; il «dopo», quello della «storia vera», è iniziato con la colonizzazione che li ha costretti a diventare consapevoli di se stessi visti dagli altri: neri, inferiori, schiavi. Due modi radicalmente diversi di guardare agli avvenimenti e impossibili da definire (e da accettare) come «storia».
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3.

La rottamazione dell'Europa



«La grande sassaia universale» Il segnale più forte, tuttavia, della disgregazione e del non senso in cui viviamo è quello della «rinuncia». Rinuncia a estendere i propri valori, la propria religione, la propria lingua, la propria cultura; un atteggiamento che, come ho detto, caratterizza le culture etnologiche.
Cercherò di analizzare in profondità questa «rinuncia» e apparirà evidente che viviamo davvero in una cultura morta da viva, dove quei comportamenti che vengono presentati ed esaltati come conquiste — l'allargamento a tutto il Continente del medesimo sistema di vita, di significati, di istituzioni politiche, di leggi, di «valori» che va sotto il nome di unificazione europea, con identici «diritti all'uguaglianza» nella libertà di aborto, di matrimonio omosessuale, di cambiamento di sesso, di fecondazione artificiale, di eutanasia, di suicidio assistito, di morte cerebrale, di trapianto di organi — sono in realtà soltanto manifestazioni della dissoluzione dell'Europa, della rinuncia al futuro del gruppo, dell'abbandono di qualsiasi razionalità di vita.

È «la grande sassaia universale» di cui parla Gottfried Benn: «Crisi espressive e attacchi d'erotismo: questo è l'uomo di oggi, l'interno un vuoto».
Su questa grande sassaia non si alza la poesia, ma lo stridio di vite amorfe, prive di pensiero, affogate nel vaniloquio, nelle ricette di cucina, nel pettegolezzo paraerotico, nei giochi televisivi, cui collaborano adesso al loro meglio anche i maschi, diventati ovviamente bravissimi nel disprezzato regno cui un tempo erano relegate le donne.
Le normative dell'Unione europea nei campi più delicati dell'etica garantiscono il predominio dell'individuo sulla società, cosa che già di per sé segnala che si odia il gruppo, che se ne vuole la disintegrazione e la morte. Quale senso dare se non questo ai circa 110.000 aborti di Stato annuali in Italia, mentre si compiono sforzi inauditi per far nascere un bambino da una donna di settantacinque anni? Quale senso dare al «prendere in affitto» (espressione raccapricciante di un mondo che vive di mercato) un utero per far nascere un bambino di cui non si sa chi siano il padre e la madre? Quale senso dare, soprattutto, al matrimonio omosessuale? Questo appare in realtà come una esplicita dichiarazione di guerra alla propria sopravvivenza da parte della società che l'ha legiferato.
Nel governo italiano c'è chi programma l'insegnamento nelle scuole di Stato (assunte a organi dell'ideologia dei governanti) dell'uguaglianza degli omosessuali, cosa che ovviamente non si sa come potrà essere dimostrata salvo che con il perfetto strumento di falsificazione che è il «politicamente corretto». Ma lo scopo è sempre lo stesso: spingere il più rapidamente possibile gli Italiani e gli Europei alla morte.
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Questo è il punto più importante del nuovo assetto sociale costituitosi con il passaggio dalla società dei doveri a quella dei diritti: lo Stato è il Potere, è tutto. Non rappresenta più quindi il Popolo, anche se l'apparenza formale di un'organizzazione parlamentare lascia a tutti questa illusione. L'ugualitarismo dei diritti annulla, infatti, la coscienza – quindi la libertà – del singolo individuo. Nessuna «repubblica» può esistere senza la libertà di coscienza di ognuno dei cittadini. Che votino oppure no, in un'apparenza formale di democrazia, non fa naturalmente nessuna differenza. Un esempio sarà sufficiente: in Italia la battaglia per la liberalizzazione dell'aborto ha conosciuto punte polemiche che forse non sono state raggiunte in nessun altro Paese, anche per il forte impegno della Chiesa cattolica nel cercare di impedirlo. Alla fine, però, tutte le istituzioni sono state d'accordo sull'obbligo di effettuarlo nelle strutture pubbliche, a carico dello Stato quindi, ossia di tutti i cittadini. E quando si paga per l'esecuzione di qualsiasi cosa se ne diventa direttamente responsabili. Permetterne l'esecuzione in cliniche private, almeno nei casi in cui non fossero presenti motivazioni di carattere medico-sociali, quali gravi patologie nella madre o nel feto, avrebbe significato, invece, un'effettiva possibilità di scelta individuale. La Chiesa si è arroccata nell'assolutezza del suo «No»: no in ogni caso, per qualsiasi motivo, neanche per grave pericolo della salute della madre o per malformazioni o gravi handicap nel bambino. Ai cattolici è proibito, infatti, l'accertamento ecografico durante la gravidanza in base al presupposto che, anche se fosse accertata una qualsiasi malformazione (anche una decerebrazione) o una grave malattia genetica, non sarebbe in nessun caso lecito l'aborto. Questa assolutezza ha di fatto impedito qualsiasi scelta da parte dello Stato con la conseguenza che tutti noi siamo responsabili di queste nascite che avvengono nelle strutture pubbliche, scelta che viceversa dovrebbe essere lasciata alla responsabilità dei genitori.
In questo campo, del resto, un campo così difficile e tuttavia determinante come quello della bioetica, gli errori compiuti dalla Chiesa sono stati davvero gravissimi, tanto gravi da diventare anch'essi una prova in più della volontà di uccidere la civiltà europea uccidendone il cristianesimo. Sarà sufficiente accennare al consenso diretto del papato alla dichiarazione di «morte cerebrale», che non è stato soltanto un consenso ma, nella persona di Karol Wojtyla, addirittura un entusiasmo e un'incitazione a compiere il massimo numero possibile di trapianti. In Wojtyla era presente, forse, e agiva a livello universale dato l'assoluto narcisismo che lo caratterizzava, la sua convinzione che essere cristiani significasse essere «vittime sacrificali». Ma in realtà con l'esaltazione dei trapianti si è dato corpo all'eterno homo homini lupus che abita nel più profondo inconscio di ogni essere umano, come l'orrido traffico di organi ha subito dimostrato.
La compravendita è proibita dalla legge; però, malgrado sia certa l'esistenza dell'acquisto e della vendita (basta fare un giro d'orizzonte in internet) che io sappia non è mai stato processato o condannato qualcuno in Italia per questo motivo. Purtroppo le notizie sull'uccisione di bambini per utilizzarne gli organi scompaiono quasi subito dai giornali senza alcun seguito. Suore missionarie in Mozambico hanno denunciato, tramite «l'Osservatore Romano», il giornale del Vaticano, la sparizione dai loro collegi e orfanotrofi di bambini di cui vengono ritrovati nelle strade e nella spazzatura i cadaveri chiaramente smembrati a scopo di trapianto, ma anche questa denuncia non ha avuto seguito pur essendo un fatto notorio che nei Paesi più poveri, come il Mozambico, il Messico, l'India i bambini scompaiono per questo motivo. E non soltanto nei Paesi più poveri.
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Giorgio Napolitano si è felicitato del fatto che, guidata da un esperto delle funzioni bancarie, l'Italia recuperasse il proprio onore in Europa. Una convinzione che fa venire i brividi. L'onore dell'Italia, Presidente? Ma cosa dice? Quale uomo può avere nelle sue mani l'onore dell'Italia? L'onore di Galileo, l'onore di Leonardo, l'onore di Michelangelo, l'onore di Dante, l'onore di Mazzini, l'onore di Garibaldi, l'onore di Leopardi, l'onore di Verdi? No, no, tranquillizziamoci: l'uomo di cui parla il Presidente è un banchiere, il signor Mario Monti, che non potrebbe avere in mano, con o senza l'aiuto del Presidente della Repubblica, l'onore di nessuno, salvo il proprio naturalmente. E anche il suo, chissà? Come membro della Commissione europea presieduta da Jacques Santer, è stato costretto dal Parlamento a dimettersi, insieme a tutta la Commissione (di cui faceva parte anche un altro italiano, Emma Bonino), per cause veramente infime: compaiono infatti nella perizia sui bilanci della Commissione, effettuata dal Comitato di esperti indipendenti nominato dal Parlamento, insieme a un macroscopico «buco di bilancio», operazioni di corruzione quali «frode, cattiva gestione, nepotismo, favoritismi, contratti fittizi»: termini imbarazzanti e quasi inverosimili in rapporto a quello che avrebbe dovuto essere il governo di un grande e nobile Impero. È stato poi consulente della banca Goldman Sachs, una delle maggiori protagoniste nella diffusione dei titoli «derivati» che hanno provocato il crack mondiale del 2008 e, con totale noncuranza dei conflitti d'interesse, è stato anche consulente dell'importante agenzia Moody's. Finalmente, dopo le operazioni di distruzione dei titoli sovrani degli Stati, appositamente messe in atto da quei potenti dietro le quinte che perseguono l'unificazione mondiale, è giunto al posto cui aspirava da molto tempo, quello di capo del governo italiano.

Malgrado tutto, però, il salto non è stato facile: gli Stati sono lenti a morire e i banchieri sempre più impazienti. C'è voluta una bella spinta: con un atto di forza del Presidente della Repubblica ha preso corpo, fra tutte le falsificazioni del bene cui assistiamo impotenti in questo periodo, anche la «falsificazione della democrazia». Povera Italia! Una persona autoritaria, che al momento giusto coglie la palla al balzo per instaurare la dittatura, non le è mai mancata. Questa volta, però, perfino come dittatura è talmente grottesca che non si sa in quale modo definirla: sono ancora in carica, infatti, i parlamentari eletti dal popolo, ma si sono trasformati, votando le decisioni di un governo formato da persone non elette, in truffatori di se stessi, del Parlamento e della volontà di coloro che li hanno eletti. Forse Giorgio Napolitano, vissuto fin dalla prima giovinezza nell'ambito degli ideali del Partito comunista sovietico, ha voluto fare omaggio a una delle invenzioni più care ai fondatori del comunismo in Russia: il governo dei tecnici. Si erano definiti così, infatti, Lenin, Trockij e i loro primi compagni per giustificare il fatto che a prendere il potere, formando il governo postrivoluzionario, erano degli intellettuali che non avevano mai avuto cariche politiche.

C'è da aggiungere un particolare ai «meriti» di un banchiere capo del governo, un particolare interessante dal punto di vista del problema della lingua di cui ci siamo occupati: nel mondo dell'economia e della finanza ci si vanta di parlare soltanto in inglese. Non parlare la propria lingua madre è stato sempre per qualsiasi uomo, come abbiamo già visto, un enorme sacrificio, una privazione dipendente dalla necessità, come per chi è emigrato e si trova in terra straniera. Nulla quanto la rinuncia alla lingua madre rappresenta e allo stesso tempo dà sostanza alla condizione dell'esilio, dell'estraneità. Evidentemente non è così per banchieri ed economisti, ma forse un motivo c'è. La propria lingua è tutt'uno con il pensiero: avviene molto raramente che uno scrittore non si serva nelle sue opere della propria lingua madre, anche quando viva da moltissimi anni in un Paese straniero e ne parli abitualmente la lingua. Il fatto è che economisti e banchieri non sono persone di pensiero. Anzi ne rifuggono, così come rifuggono da qualsiasi sapere che non rientri nell'economia.
Il rifiuto di uscire dal proprio ristrettissimo campo d'azione, cosa che nell'universo scientifico moderno caratterizza soltanto gli economisti, dipende da alcuni precisi dati psicologici. Il primo ed essenziale è il primato di se stessi: se l'economia interessa me significa che è l'unico sapere realmente «sapere», un sapere assoluto che non ha bisogno di nulla che lo completi così come Io sono assoluto e nulla è maggiore di me. Si tratta, dunque, di una convinzione che fa parte della personalità dell'economista e che naturalmente contraddice il concetto stesso di «scienza», portando a pericolosi errori. L'economia sarebbe, in questo senso, la scienza delle scienze, così come è stata per molto tempo la teologia.

Di fatto per molti economisti e finanzieri l'economia è davvero una teologia, con il medesimo assunto di partenza dei teologi: chi non conosce l'economia è analfabeta, è escluso dal mondo del sapere, così come il non iniziato, il non circonciso è escluso dal mondo «vero», quello del «mito» fondativo della tribù e dalla capacità d'azione che ne discende. Per questo i cultori dell'economia formano una società chiusa, forte e solidale soltanto all'interno del proprio cerchio, stranamente simile a quella società segreta potentissima e piena di conoscenze magiche che nelle culture primitive è costituita dai «lavoratori del ferro», quelli col fuoco sempre acceso. La Borsa è questo fuoco.


Sacerdoti del mercato
Questo atteggiamento esclusivo è stato contestato agli economisti da molti studiosi anche del loro campo, quali Karl Polanyi e Amartya Sen , quest'ultimo insignito del Premio Nobel 1998. Molto sensibili alle teorie antropologiche, ambedue dimostrano con i loro studi come sia errato ritenere il mercato e la sua «crescita» il fattore fondamentale dell'economia e come nessuna dinamica economica possa essere valutata in assoluto, avulsa dall'insieme di ogni specifica società.
Alla luce di queste profonde riflessioni, dettate oltre che dall'intelligenza, anche da una grande conoscenza dell'antropologia e di molte società etnologiche e antiche, il fondamentalismo dei banchieri che governano attualmente l'Europa fa veramente paura. Si tratta, infatti, di un fondamentalismo radicato nell'idea ossessiva che la salvezza degli Stati dipenda dal mercato e dalla «crescita». Il fatto che questa teoria sia errata non li tocca e non li può toccare visto che, se la salvezza del mondo dipende dal mercato e dalla crescita è perché i sacerdoti (gli esperti, i tecnici) del mercato e della crescita sono loro, gli economisti. Potrebbero mai i sacerdoti di una qualsiasi religione affermare che Dio non esiste? Quindi «mercato e crescita» sono diventati ormai concetti e termini assoluti e al tempo stesso apotropaici, analogamente agli enormi falli priapeschi che un tempo sorgevano nei campi a proteggere le messi.
Crescita! Crescita! Alle prese con il dovere assoluto della «crescita», i banchieri e i governanti d'Europa, e con loro purtroppo i poveri popoli che ne sono governati, sembrano diventati ormai come quelle madri che pesano ansiosamente il neonato tre volte al giorno, pronte a vedere avvicinarsi un pericolo di morte e a chiamare il pediatra se la bilancia non segna almeno un grammo di più della volta precedente. Invece di chiamare il pediatra si aumentano le tasse, ma il meccanismo è lo stesso.
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Pagina 97


4.

Un circolo chiuso



Relativismo e crisi della Chiesa Non pensiamo a un futuro che sia nostro, che riguardi noi, soltanto noi e non l'universo mondo. È questo che manca all'Europa: l'aspirazione a un futuro. Manca perché la maggior parte dei suoi tratti culturali è esaurita. Manca perché una società priva di vis, dove non si sa più che cosa sia la «virilità», la potenza della virilità, e addirittura la si disprezza, non possiede più alcuna spinta aggressiva verso l'esterno e anzi si trova in stato di passività e di soggezione. Manca perché i suoi leader, governanti, clero, giornalisti l'hanno spinta e la spingono ogni giorno a perdere le proprie caratteristiche per unificarla e omologarla al resto del mondo. Laddove tutti sono «uguali» (o vengono costretti a sembrare uguali) la passività dei sudditi è assicurata, ma è assicurata anche l'assoluta debolezza della società. 

L'Europa è diventata «femmina». Tutte le caratteristiche sociali e culturali dei «bianchi», quelle che erano implicite nella definizione stessa di «bianchi» come conquistatori, ma anche come portatori della civiltà più ricca e sviluppata in ogni campo, sono sparite. Certo, l'Europa appare ancora molto ricca in confronto all'Africa o all'India, ma si tratta di pura ricchezza materiale, una ricchezza che del resto si va anch'essa esaurendo rapidamente.
È sparita però la forza della società fondata sulla famiglia, sull'autorità del padre e dei maschi in generale, su una desiderata procreazione, sulla solidarietà dei legami di parentela. È sparito l'amore per la Patria, l'orgoglio per il patrimonio inestimabile del diritto, della letteratura, dell'arte, della musica, che caratterizza la storia d'Europa. È quasi del tutto sparita anche la fiducia nella Chiesa cattolica, la partecipazione alle cerimonie liturgiche, diventata più una tradizione sociale che un gesto religioso. È sparito l'ossequio verso il cristianesimo come religione portatrice di grandi valori etici, qualità mai negata fino a oggi anche dai non credenti, al di là della critica pur asprissima nei confronti del clero e del suo comportamento.
Tutto, insomma, assolutamente tutto quello che costituiva il patrimonio della civiltà europea, è andato in rovina, si è dissolto con una rapidità quasi incredibile. Non c'è stato «valore» che, all'improvviso, non sia stato dichiarato ingiusto, sbagliato o comunque irreparabilmente tramontato. Senza battaglia. Senza neanche la più piccola resistenza.
All'inizio era sembrato che la gerarchia cattolica volesse fare qualche tentativo per opporsi a questa dissoluzione, ma si è capito quasi subito che viceversa si trattava del voltafaccia più sorprendente che la storia della Chiesa avesse mai registrato. I papi, infatti, nella persona del beneamato Karol Wojtyla, hanno cominciato a «chiedere scusa» al mondo per gli errori commessi in passato. Chiedere scusa? Chiedere scusa della storia? È un'idea talmente grottesca che ci si domanda come possa essere venuta in mente a qualcuno, o se per caso si trovino oggi a capo della Chiesa dei bambini che giocano con il mondo e con se stessi, fuori dalla realtà. Wojtyla «chiede scusa» per le Crociate, per l'Inquisizione, per decisioni di «potere» che hanno caratterizzato il pensiero e l'azione della Chiesa attraverso i secoli e che hanno inciso sulla vita di milioni di persone e sulle istituzioni di quasi tutto il mondo!
Tornare indietro nella storia non è possibile, è chiaro, ma chiedere «scusa» offende la ragione, offende i popoli e la realtà della storia. Soprattutto rivela fino a che punto si tratti di un gesto dettato, sotto le apparenze dell'umiltà, da una presunzione spropositata: sono talmente piccoli i popoli, talmente piccole le loro sofferenze, talmente piccola in fondo la loro storia in confronto alla Chiesa, che questa può perfino chiedere scusa per averla provocata.
L'unica cosa che la Chiesa potrebbe fare, cancellando la vergognosa idea delle scuse, è ripensare oggettivamente a quali fossero i motivi delle azioni del passato e imparare, proprio in base a questo passato, a non compiere gli stessi errori. Cambiare quindi molte delle premesse teologiche che hanno guidato il comportamento della gerarchia e del clero, riconoscendo quanto influisca il contesto del momento su ciò che si crede giusto.
La Chiesa, viceversa, continua a camminare nello stesso modo in cui ha sempre camminato, proclamandosi assolutamente certa di ciò che fa, senza porsi neanche per un attimo l'interrogativo se le conoscenze storiche accumulatesi negli ultimi due secoli con l'apporto delle scienze umane, non siano da prendere in considerazione proprio da questo punto di vista. I papi condannano in assoluto il «relativismo» (non soltanto Wojtyla, visto che anche il suo successore, Joseph Ratzinger, ha ribadito questa condanna), ma proprio il relativismo, ossia la presa in considerazione del punto di vista del soggetto agente in un determinato contesto, può spiegare, almeno in parte, anche molti degli errori compiuti dalla Chiesa.

Certo, se prendesse in parola se stessa quando afferma di voler chiedere scusa del proprio passato, la Chiesa dovrebbe tirar giù dagli altari quasi tutti i Santi, anche i più grandi e famosi. Quelli che hanno esortato a compiere le crociate, per esempio, a cominciare dal fondatore di Cluny, il celebre san Bernardo; poi tutti quelli – e sono una foltissima schiera – che hanno predicato contro le streghe, contro gli Ebrei, contro gli omosessuali, mandandoli al rogo. Infine gli inquisitori-giudici che hanno condannato alla tortura e al rogo ogni genere di supposti eretici. Fra questi sarebbe doveroso che la Chiesa riconoscesse i gravissimi errori del gesuita Roberto Bellarmino, dichiarato non soltanto «santo» ma anche «dottore» (massimo conoscitore di ciò che è la Chiesa, dunque), il quale può vantarsi di aver giudicato e condannato durante la sua lunga vita (è nato nel 1542 ed è morto nel 1621), insieme a tanti altri, due delle persone più famose al mondo: Giordano Bruno, torturato e bruciato in Campo de' Fiori a Roma, e quel Galileo Galilei che pretendeva di saperne più della Bibbia su ciò che fa il sole, condannato a vestire i panni del pentito in processione intorno a San Pietro e, non potendolo bruciare a causa della sua fama mondiale, agli arresti domiciliari a vita e alla recita tutte le settimane dei Salmi penitenziali (durissima condanna questa per uno scienziato che non poteva pentirsi di ciò che sapeva essere vero).

La Chiesa, però, non lo fa. Le parole di scusa pronunciate prima da Wojtyla e poi da Ratzinger sono parole vuote, simili a quelle di tutti i governanti e i leader del nostro tempo perché fanno parte del sistema ormai ben noto della «falsificazione del bene». Perciò non contano. È vero: i papi ci hanno fatto le loro scuse e noi dobbiamo tenercele; e magari onorarli per questo. Ma le parole sono parole. Joseph Ratzinger ha perfino pronunciato un lungo elogio di Bellarmino nell'udienza generale del 23 febbraio 2011, affermando che: «Un segno distintivo della spiritualità di Bellarmino è la percezione viva e personale dell'immensa bontà di Dio», senza nemmeno accennare alla condanna di Giordano Bruno e di Galileo. Evidentemente l'immensa bontà di Dio si manifesta anche nel torturare e far morire sul rogo chiunque osi pensare, studiare, riflettere con la propria testa. La chiesa parrocchiale dedicata al santo dottore Bellarmino, a pochi passi di distanza dalla piazza dove è stato bruciato Giordano Bruno, continua a funzionare regolarmente ogni giorno. Né il parroco né il vescovo hanno creduto alla buonafede dei papi e di conseguenza non hanno minimamente pensato che fosse necessario dedicarla a qualche altro «eroe» della santità, cancellando la dedica precedente.

La Chiesa si è affrettata invece, quanto non aveva mai fatto in passato, a beatificare Karol Wojtyla, uno dei papi che hanno fatto maggior danno al cristianesimo a causa della sua scarsa capacità di guidare la Chiesa. Probabilmente nell'ambito della gerarchia incaricata della beatificazione c'è chi intuisce il pericolo di non poterlo più canonizzare se si lasciasse passare del tempo: la falsificazione del bene è diventata ormai in Europa una patologia ammorbante, all'ultimo stadio. Sono molti adesso a rendersene conto: presto tutta la costruzione crollerà.


La sessualità in Occidente
A dire il vero il segnale d'inizio per la morte dell'Occidente è stato dato dall'America con il processo a Bill Clinton. Un processo per molti aspetti «medioevale», nel quale il procuratore Kenneth Starr ha assunto le vesti dell'inquisitore; le stesse vesti dell'inquisitore che, prima di condannare al rogo Gerolamo Savonarola per «eresia», ha voluto accertarsi, ispezionandone l'ano personalmente, della sua colpa di sodomia.
Era l'anno 1498 della splendida civiltà rinascimentale fiorentina. Sono passati esattamente cinque secoli. Il procuratore Starr ha compiuto lo stesso gesto, nel momento in cui ha prelevato il sangue dal braccio del Presidente degli Stati Uniti d'America per accertarsi di chi fosse lo sperma raccolto proditoriamente sulle vesti di Monica Lewinsky. Il processo a Clinton si è svolto quindi, nel 1998 e nella splendida civiltà dell'America, sulle stesse direttrici del processo a Savonarola: in teoria il tradimento politico, il falso giuramento del Presidente (l'eresia); di fatto la colpa sessuale.
Se con il processo a Clinton è iniziata la fine dell'Occidente, con il rogo del Savonarola aveva avuto invece inizio l'inesorabile declino della Chiesa, un declino che nessuna Controriforma ha in seguito potuto arrestare.
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[...] Aggiungo, per quanto mi riguarda personalmente, che la cosa che mi ha indotto a tenere in particolar modo fissa l'attenzione su determinati comportamenti, non è stato il fatto che la maggior parte delle norme, dei divieti, dei tabù riguardassero le donne, ma il «silenzio» totale e assoluto su questi argomenti che hanno conservato tutti – uomini, donne, medici, psicologi, storici, filosofi, sociologi, antropologi, teologi – per duemila anni e oltre. Per giunta gli storici, non appena sono comparse all'orizzonte le scienze sociali, si sono premurati di precisare che il metodo storico non permette di dedurre nulla dal «silenzio» per cui il cerchio sembrerebbe chiuso. Insomma, perché? Il sistema sessuale, fattore fondamentale della vita di qualsiasi società, presenta caratteristiche assolutamente originali in Europa a causa dell'itinerario – mentale e concreto – compiuto nel passaggio dalla psicologia e dai costumi dell'antichità classica a quella dei discepoli di Gesù, i quali erano Ebrei pieni di dubbi ma anche di propositi nuovi indotti dalle parole e dalle azioni del loro maestro. Questi propositi alla fine si sono concretizzati in uno strano «accomodamento».
Il «salto» è stato vertiginoso. Tanto vertiginoso che ancora adesso è molto difficile per gli storici trovare delle spiegazioni plausibili alla caduta dell'Impero romano. Forse si può però intravedere almeno una delle cause principali nei significati sotto traccia ma assolutamente coercitivi, nella loro sistematicità logica, sottostanti all'ebraismo e alla loro clamorosa «conclusione» con il cristianesimo. Una conclusione di cui vediamo oggi dissolversi le ambivalenze, i lati oscuri, gli equivoci, cosa che potrebbe configurarsi, invece che nell'attuale rabbiosa distruttività, in un'ancora di salvezza per liberarsi della Chiesa come seconda Sinagoga e del cristianesimo ebraicizzante codificato dai discepoli di Gesù e aggrapparsi esclusivamente alle idee di verità della parola, di libertà dalla prigionia del Sacro e di perdono reciproco che Gesù ha predicato e per le quali è stato ucciso.
La radice prima del rapporto degli Ebrei (i maschi, ovviamente, è inutile sottolinearlo in quanto sono stati sempre e soltanto i maschi i soggetti creatori e agenti delle culture) con Dio è un'unione sessuale, il matrimonio fra Dio e Israele. Dio rivolge tremendi rimproveri al suo popolo in termini di «tradimento», di «adulterio», di «prostituzione». Israele è la Sposa di Dio. Il patto di alleanza avviene attraverso un'offerta sessuale: il prepuzio. «Tuo sposo è il tuo creatore, Signore degli eserciti è il suo nome» dice Dio attraverso le parole del profeta Isaia. Il Secondo Libro di Samuele conferma con gli stessi termini: «Ricondurrò a te tutto il popolo, come ritorna la sposa al marito». Il rimprovero di Geremia è ancora più incalzante: «Sopra ogni colle elevato e sotto ogni albero verde, ti sei prostituita... tu ti sei disonorata con molti amanti e osi tornare da Me? Sfrontatezza di prostituta è la tua». In un passo del libro di Osea, Jahvè dice esplicitamente agli Ebrei che devono chiamarlo «marito». E nello stesso libro Dio dice agli Ebrei che «li sedurrà» nell'accezione del termine che indica il possedere una vergine.
Naturalmente si sono sempre interpretate queste espressioni come metafore, ma si tratta, invece, di una immagine matrimoniale che è primaria nella fondazione culturale ebraica in quanto identifica la posizione degli uomini davanti a Dio come femmine. Il corpo degli Ebrei è un corpo femminile, offerto nel prepuzio a Dio e che perciò deve essere continuamente purificato, lontano da ogni contaminazione. Viene a mancare pertanto nella cultura ebraica la struttura di comunicazione sacrificale rappresentata ovunque dall'offerta delle donne e la «sacrificalità» si configura in modo diverso da tutte le altre religioni perché si forma una specie di corto circuito omosessuale nella comunicazione diretta fra il gruppo e Dio, ambedue «maschi». È il motivo per il quale l'omosessualità, il rapporto sessuale con un altro maschio, viene respinto con orrore, assolutamente condannato: rappresenterebbe il vero, unico «adulterio», il tradimento nei confronti dello Sposo (il rapporto con la donna, con la moglie, non è adulterio perché non è un «rapporto», è un contatto finalizzato esclusivamente alla procreazione e il rapporto con le prostitute è vietato). Neanche una goccia di sperma può essere dispersa o cadere in terra (con il divieto della masturbazione); tutti i maschi primogeniti sono «Suoi» e debbono quindi essere riscattati dal servizio divino.
In realtà, dunque, c'è un'omosessualità implicita nella cultura ebraica, quella vissuta mentalmente, affettivamente, simbolicamente con la mascolinità di Dio.
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Le religioni ne sono lo specchio in quanto, essendo fondate sul modo di affrontare la morte, includono necessariamente una concezione del tempo. Ogni popolo, quindi, quando adotta una religione inventata da altri popoli, è costretto ad adattarla, ad «aggiustarla» in funzione di questa esigenza. Questo è un punto molto importante di cui tenere conto e che ha rilevato Franz Boas criticando l'eccessiva facilità con la quale nei primi studi etno-antropologici si spiegavano i fenomeni di somiglianza culturale attraverso la «diffusione». È vero che gli uomini sono assetati di idee nuove e che queste si diffondono a grande velocità perché inventare, creare, non è facile; ma non succede mai che un popolo si appropri delle idee di un altro popolo senza cambiarne o il significato, o lo scopo, o qualche altro attributo. Il motivo è evidente: il nuovo elemento non può entrare in contrasto con gli altri fattori del modello culturale già esistente.

Nell'ambito delle religioni bibliche lo si vede chiaramente: il «tempo» dei musulmani è tipicamente orientale e conduce a non fare, abbandonandosi alla volontà di Allah, con tutte le lentezze, le inerzie, le pigrizie che questo comporta. Nel cristianesimo, invece, sono state compiute vere e proprie acrobazie spirituali e intellettuali (teologiche) per giungere a realizzare gli «aggiustamenti» necessari ai diversi caratteri dei popoli. Nei primi secoli le diatribe che si sono scatenate sulla natura umana e divina del Salvatore hanno posto le premesse per sviluppare poi la fisionomia religioso-culturale che ha diviso le Chiese d'Oriente da quelle d'Occidente. In Occidente si è posto l'accento sull'umanità del Cristo, quindi sul «fare», sul soffrire, sul voler «vivere la vita» e combattere la morte, mentre in Oriente si è posto l'accento sulla Trinità di Dio, che ovviamente comporta la «contemplazione» dell'al di là e non l'agire di qua.

In seguito, la violenta battaglia pro e contro le immagini ha dato la misura di quanto fossero diversi i popoli. Il predominio dello spirito contemplativo dell'Oriente ha favorito il culto delle icone, il «guardarle» e l'«essere guardate» come forma di preghiera, escludendo quasi del tutto la rappresentazione di scene di vita del Vangelo (anche la Madonna non può essere rappresentata da sola, ma sempre insieme al Figlio). I popoli d'Occidente hanno invece colto l'occasione per abbandonarsi senza limiti alla loro passione per la «forma» e per la varietà dell'arte in tutti i campi, dall'architettura alla scultura, alla pittura, alla musica. 

La vita di Gesù, uomo fra gli uomini, ha suggerito i temi agli artisti, ma non li ha creati. Sono stati gli innumerevoli artisti fioriti attraverso i secoli in Italia e in Europa a impadronirsi di Gesù per manifestare la loro straordinaria capacità di «spiegare» con l'arte tutto ciò che non si può spiegare a parole: l'immensa dolcezza della Madre con il Bambino, l'assoluta bellezza di un'Ultima cena; l'attonito silenzio del mondo davanti a un uomo che, mentre chiede aiuto come tutti gli uomini davanti alla morte, grida però parole mai udite: «Perdona!». Quel «perdona loro perché non sanno quello che fanno» non è mai stato né pensato né detto da nessuno prima di Gesù e ha veramente cambiato il mondo. Lo ha cambiato perché lui l'ha pensato e l'ha detto e gli uomini, tutti gli uomini, se ne sono commossi, l'hanno capito e questo basta a testimoniare che l'uomo ne è capace. Per quanto atroce sia stata la storia dell'Occidente dopo di lui, il mondo è davvero cambiato con Gesù. L'arte ne è la prova.
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Addio al Padre Abbiamo ricostruito questo percorso per mostrare chiaramente come oggi non vi sia più spazio non soltanto per il cristianesimo, ma per tutti i valori che in questi duemila anni hanno concorso alla formazione e allo sviluppo della civiltà europea. Per quanto forse i credenti cristiani non se ne rendano del tutto conto, non può sussistere una religione fondata su un Dio «Padre» laddove la figura del padre ha perso qualsiasi rilevanza e autorità. Come abbiamo ormai più volte detto, le religioni sono specchio e proiezione di ciò che pensano e che desiderano i popoli. L'immagine di un Dio-Padre è ormai priva di senso.

Non può sussistere una religione fondata sull'importanza del «Figlio» laddove la procreazione è considerata un fatto personale e gravoso e la società provvede gratuitamente ai numerosissimi aborti confermando così che vuole la propria morte. D'altra parte il figlio è ormai inutile per il padre in quanto non gli serve più a garantirne la sopravvivenza. Non serve né per l'al di là né per il di qua. Le dinastie, le successioni, le eredità sono state quasi del tutto abolite, oppure vengono significativamente caricate di tasse. Nessun genitore conta sui figli per la propria vecchiaia. Alla vita nell'aldilà è ormai quasi impossibile credere e di fatto gli uomini in Europa preferiscono non pensarci.
La dichiarazione di «morte cerebrale», i trapianti d'organi hanno tolto concretamente e simbolicamente ogni trascendenza alla morte, di cui il cadavere, fino a questa orrida decisione, sembrava racchiudere il mistero; per non parlare di ciò che il corpo era (o meglio «è», visto che il dogma non è stato abolito) nella teologia cristiana con la fede nella resurrezione dei corpi, inclusa nel Credo, alla quale però nessuno evidentemente pensa più.

Sembra quasi impossibile che vi sia stato un tempo (oggi appare lontanissimo ma in realtà si tratta soltanto di pochi anni fa) in cui gli uomini si toglievano il cappello davanti a un morto a onorarne, appunto, la sacralità. Tutto questo è stato voluto dallo Stato e dalla Chiesa in modo ossessivo, come se la realizzazione dei trapianti d'organi costituisse il centro del loro potere e dei loro desideri.
Ma il trapianto d'organi significa l'annullamento delle specifiche individualità (oltre che il consenso e la legittimazione dell'istinto sempre presente nell'uomo di sopravvivere uccidendo, mangiando l'altro); significa avvicinarsi concretamente a quella nuova forma di uguaglianza che, invece di affermare l'esistenza del singolo, afferma la sua non-forma, la sua mancanza d'identità, la sua integrazione nell'identico. Passaggio indispensabile per giungere ad annullare la differenza posta dalla natura con il Dna maschile e femminile, la differenza di genere, e affermare la «normalità» dell'omosessualità.

Non si può trarne che una sola conclusione: hanno voluto che l'omosessualità vincesse su tutto e su tutti. Ma il primato dell'omosessualità non sarebbe stato proponibile fin quando fosse stato in vigore non soltanto il primato del «padre», dei legami di parentela, dei legami di sangue, ma anche e soprattutto l'assoluta «differenza» del genere maschile e femminile, ossia la differenza per antonomasia. L'interscambiabilità dei corpi l'ha annientata. Dunque: nessun «Genere», nessuna «Paternità», nessun «Figlio», nessuna «Famiglia», nessuna «Società», nessun «Futuro».
Naturalmente questo significa che si vuole la fine non soltanto del cristianesimo, ma di tutta la civiltà e della società europea, la fine dei «bianchi». L'omosessualità è strumentale soltanto a questa fine e il suo primato sparirà insieme ai bianchissima.

...
I popoli che  si impadroniranno dell Europa non produrranno né filosofia, né arte, né musica come afferma chiarmente la religione che hanno adottato.
Fanno molti figli però: la natura segue le  proprie leggi, quelle della sopravvivenza della specie e quindi li privilegia.
Nesuno piange la fine dei bianchi , sebbene siano tanti a piangere la finestra dei panda (....) perché questa fine é stata ossessivamente voluta e perseguita dai governanti e da tutti i leader europei.
Può darsi sia stata l'America a volere che l'Europa le assomigliasse, con tanti popoli diversi, un solo sistema economico e tanta orgogliosissima omosessualità.
(...)
 Dell' Europa rimarrà solo il nome del territorio geografico. Il resto sarà Africa.