Tremate, gli streghi sono tornati. In America il movimento esce dalle catacombe. E Camille Paglia azzarda: il mondo è degli uomini
Ci voleva Camille Paglia per rinvigorire il corpo esausto del maschio, cacciato a forza dal reame delle cose utili o ridotto a semovente banca del seme nella febbrile attesa della partenogenesi. Ci voleva una lesbica e femminista radicale sconfinata nell’eterodossia, una traditrice dell’asessuato pensiero Lgbt, e per questo tenuta ai margini dei circoli della gente che piace, per dire che il mondo è degli uomini, ma senza l’inflessione apocalittica dell’evangelista che attribuisce a Satana la signoria sulla terra. La terra è maschia e se ne faranno una ragione le Sheryl Sandberg del “lean in” e le Tina Brown del “lean on”. Il mondo è del maschio per via di quell’antica storia della divisione del lavoro. E’ del maschio perché le strade su cui la femmina fa carriera sono asfaltate da maschi, le merci che la femmina vende con mirabile cura e capacità persuasiva sono caricate sui camion da operai maschi e dai maschi sono portate nei magazzini dove altri maschi le scaricano e le distribuiscono, e così via.“L’economia moderna, con il suo vasto network di produzione e distribuzione, è un’epica maschile nella quale le donne hanno trovato un ruolo produttivo, ma le donne non sono le autrici di questa epica”, ha detto Paglia al Munk Debate di Toronto, in una specie di quaestio quodlibetalis sull’obsolescenza del genere maschile che l’ha opposta all’autrice che ha celebrato la fine dell’uomo, Hanna Rosin, e alla Maureen Dowd che si è retoricamente domandata in un libro di qualche anno fa se gli uomini siano poi davvero necessari. Il passaggio dall’assetto economico industriale a un modello produttivo incentrato sui servizi ha certamente alimentato i sogni egalitari e le utopie dell’indistinzione sessuale – sostenute da promesse manipolatorie della biologia – ma i segni di resipiscenza vengono dalla generazione che aveva combattuto con tutte le sue forze l’oppressione di genere. “In realtà – ha detto Paglia – gli uomini sono assolutamente indispensabili ora, anche se la cosa è invisibile per molte femministe, le quali sembrano cieche di fronte alle infrastrutture che rendono possibili le loro carriere professionali. Sono principalmente gli uomini che fanno il lavoro sporco e pericoloso di costruire le strade, colare il cemento, cuocere i mattoni, incatramare i tetti, allacciare cavi elettrici, costruire gasdotti e fogne, tagliare alberi e modellare il paesaggio naturale per costruire edifici. Sono gli uomini che sollevano e saldano le travi che sorreggono i nostri uffici, e sono sempre gli uomini che fanno il lavoro, che fa drizzare i capelli, di installare e sigillare i vetri di grattacieli di cinquanta piani”.
Per Paglia ammettere la mistica del maschio che forgia e installa gli strumenti che permettono alla donna di fare carriera non equivale alla resa del femminismo. Semmai è il segno dell’emancipazione per cui la donna si è battuta: “Certamente le donne moderne sono abbastanza forti per riconoscere ciò che è giusto”. Il mondo è maschio, riconoscerlo è femmina. E’ una provocatrice che si diverte a rovesciare e scandalizzare, dice quello, e certamente Paglia, sostenitrice da sponda femminista del vitalismo della pornografia, della prostituzione e dello striptease come atto da inquadrare certamente nella sfera del sacro, non pesca nelle acque morte della convenzione. Ma il cuore del suo argomento non è ironico, non si fa strada sciabolando paradossi. In un’intervista al Wall Street Journal ha portato la sua tesi alle estreme conseguenze, mettendo in connessione l’indifferenza di genere che occhieggia nel femminismo e nell’ideologia gay (Harvey Mansfield, teorico contromano del ritorno della “manliness”, parla opportunamente di “same-sexuality” in opposizione al più vasto e antico concetto di omosessualità) al collasso della cultura occidentale. L’occidente ha marginalizzato la cultura militare, il lavoro manuale, ha glorificato la formazione universitaria, autoclave mentale in cui fermenta il pensiero unico, e insomma ha svilito qualunque attività porti traccia della differenza sessuale. Sulla “war against boys”, la tendenza delle scuole americane a femminizzare il maschio, aveva già scritto testi fondamentali la femminista in esilio Christina Hoff Sommers, altra glorificatrice del vituperato corpo maschile, e tutto cospira allo sfibrarsi della materia culturale che l’occidente aveva impiegato millenni a plasmare. Lo chiamano femminismo ma un termine più appropriato sarebbe indifferentismo, culmine della pulsione egalitaria che appiattisce le differenze biologiche e culturali fra generi.
Il teologo americano David Schindler, decano emerito dell’istituto Giovanni Paolo II di Washington, sostiene che al cuore del liberalismo c’è una “antropologia androgina”: l’umano è tale in quanto è capace di scelte razionali, non in quanto caratterizzato da un’identità sessuale. La storia dell’“immagine e somiglianza” (“E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò”, Gen 1,26-27) che è riflesso terreno della natura duale del divino finisce dritta nel cestino dell’immondizia indifferenziata, impossibile persino da riciclare.
Questa ossessione per la sterilizzazione della sessualità è un istinto “borghese”, secondo Paglia, che alla morigerata “equality” sessuale preferiva, negli anni della rivoluzione sessuale che hanno preceduto la presente rivoluzione asessuale, la più avventurosa ricerca della “diversity” e ora si ritrova a dibattere con le promotrici del compimento femminile su uno spartito che è – e sarà sempre, ammette olimpica Paglia – squisitamente maschile. La ricostituzione del maschio appare dunque come un’arte femminile nell’epoca in cui anche le tette situazioniste delle Femen vengono a noia, tanto si sono ritirate nell’angusto spazio mentale di una galleria fotografica sulla homepage collettiva. Del resto la rivoluzione non è un flash mob con i paparazzi preallertati. Nel mondo che passa il tempo a inventare nuovi diritti per proteggere categorie che ancora non esistono, galoppa la retorica del corpo delle donne e il suo esatto contrario, la rivendicazione movimentista della mascolinità come frontiera estrema dei diritti civili, le Femen con il petto villoso che reagiscono all’oppressione della misandria.
La segregazione razziale è la battaglia dell’America di ieri l’altro (si discute piuttosto, da Starbucks alla Corte suprema, dell’eliminazione dell’Affirmative Action), quella femminista di ieri, l’uguaglianza gay va a gonfie vele presso l’opinione pubblica di destra e di sinistra, e cercando nuove categorie da sdoganare socialmente si è finito per estrarre dall’armadio il maschio che fu oppressore per antonomasia e che ora si sente oppresso.
Il Men’s Rights Movement (Mrm), movimento per i diritti del maschio, è una reazione alla prima ondata femminista, ideologia che si nutre delle stesse categorie e degli stessi cliché, semplicemente rovesciati. Si è diffuso in America come forma di protesta sottoculturale nella fase in cui l’emancipazione femminile ha generato quelli che erano percepiti come pregiudizi e discriminazioni verso gli uomini, e ha condotto battaglie più o meno surreali sull’adozione dei figli, sulla violenza domestica, sulle pene per lo stupro e i reati a sfondo sessuale, sul trattamento dei detenuti, le leggi sul divorzio e altri ambiti sociali in cui le donne, dicono, godono di condizioni più favorevoli per il solo fatto di essere donne. Che poi non era l’uguaglianza quella che andavano cercando? Questo il tenore dei ragionamenti.
Talvolta il Mrm ha combattuto fianco a fianco con i più intransigenti gruppi femministi, ad esempio sulla leva obbligatoria. All’inizio degli anni Settanta un gruppo di coscritti ha fatto causa allo stato federale per violazione della clausola della “equa protezione”, il cuore del 14esimo emendamento introdotto dopo la guerra di Secessione per dare effettiva protezione agli schiavi liberati. Dicevano che la leva era ingiusta perché non s’applicava alle donne, di fatto facendo leva sull’argomento egalitarista delle femministe, e perciò quando dieci anni più tardi il caso è arrivato al giudizio della Corte suprema il Mrm e l’odiata National Organization for Women si sono ritrovati a fare la battaglia per la naia universale. I giudici sentenziarono che il Congresso aveva il diritto di subordinare il principio dell’uguaglianza ai bisogni militari dello stato: in quel momento lo stato aveva bisogno di uomini. Il servizio militare è uno degli argomenti su cui, pur provenendo da vie diverse, Paglia e il balzano movimento maschilista che cerca di uscire dalle catacombe s’incontrano per un attimo. Trent’anni dopo che una corte ha ribadito il carattere maschile e obbligatorio del servizio militare l’esercito è un’entità volontaria, senza distinzione sessuale e tollerante verso gli omosessuali. Il “don’t ask, don’t tell” sembra il residuo di un’antica epoca reazionaria e il dibattito, semmai, è se le donne possano o meno ricoprire ruoli “combat”. Forse fra trent’anni la discussione apparirà ripugnante e offensiva. Il punto, per i difensori dei diritti maschili, è l’uguaglianza, per Paglia è la differenza: l’ultrafemminista assalita dalla realtà concepisce il servizio militare come riconoscimento pubblico dell’intrinseca differenza biologica e di ruoli fra uomini e donne.
E’ in questo affresco pansessualista che il movimento per i diritti maschili ha ripreso un certo vigore, non più risposta uguale e contraria al femminismo ma anche rivendicazione del diritto alla differenza dopo la solenne sbornia dell’uguaglianza. Gli attivisti sono costantemente alla ricerca di provocazioni per svelare i paradossi che l’indifferentismo sessuale ha generato. Qualche mese fa, alcune città canadesi hanno promosso una campagna pubblica contro lo stupro. Lo slogan era “don’t be that guy” e il poster più diffuso ricordava agli uomini che non ricevere un rifiuto esplicito non significa che lei acconsenta, dunque il confine dello stupro è spesso più labile di quanto un adolescente canadese alla quarta birra possa immaginare: “Il fatto che non dica ‘no’ non significa che stia dicendo ‘sì’”. Le autorità dicono che i reati sessuali sono calati del 10 per cento dopo la campagna, e non si aspettavano di vedere comparire la controcampagna maschilista “don’t be that girl” contro i pregiudizi sull’uomo predatore. “Il fatto che ti sia pentita di quella notte non significa che fosse uno stupro”, campeggia sui cartelloni. La provocazione ha suscitato moti d’indignazione direttamente proporzionali alla visibilità che ha dato al movimento. Il sottobosco maschilista ha riattivato i suoi circuiti, la campagna sui pregiudizi verso gli uomini è rimbalzata nel network A Voice for Men di Paul Elam, che del movimento è l’agitatore supremo, un incrocio fra un imbonitore radiofonico della Bible Belt e un cavilloso avvocato dell’Aclu che produce documentari su come le leggi sul divorzio favoriscano sistematicamente le donne. Sull’onda dell’entusiasmo gli attivisti hanno tentato un altro colpo a effetto inondando l’Occidental College di false segnalazioni di stupro. L’iniziativa era la risposta a una scheda, assai comune nei campus americani, in cui gli studenti possono riportare in forma anonima segnalazioni di violenze. E’ uno strumento che permette alle università di monitorare il numero di crimini sessuali e di rispondere adeguatamente, ma per gli attivisti è diventato il sinonimo della caccia al maschio che si avventa sulle prede, con libertà assoluta di denuncia, ché tanto nessuno si permetterà di non credere alla studentessa che denuncia una violenza. Una bufala, dunque, ma la falange dei diritti maschili vive di boutade e sceneggiate a effetto che sono tutto sommato il portato della fase postfemminista americana, l’ineffabile periodo dell’indistinzione, della lotta radicale al concetto di genere, del livellamento biologico e culturale denunciato da Camille Paglia, improbabile difensore dei diritti vilipesi del maschio occidentale ridotto a sottocultura.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
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