Uno sguardo da lontano
Il triste mestiere dell'antropologo
Spetta all'antropologo studiare le culture «morte».
O meglio, spetta all'antropologo studiare quelle culture
che, anche quando sono a noi contemporanee, tuttavia
appaiono morte. Ben diversamente dall'archeologo, che
studia quelle dell'antichità, ossia quelle morte davvero,
l'antropologo si è trovato di fronte a un fenomeno assolutamente
sconosciuto prima nella storia, il fenomeno di
culture «vive da morte». È stata così grande la sua sorpresa che sul primo
momento ha pensato si trattasse di
residui di un passato antichissimo, appartenenti a un'Era primordiale,
selvaggia, primitiva. Come mai apparivano morte? Non tanto perché prive di
tecnologia, di industria, di scambio commerciale, quanto perché non
hanno mai neanche immaginato di potersi estendere al
di fuori del proprio gruppo. Si tratta di popoli, in genere
poco numerosi, che considerano il proprio modo di essere, di vivere, di
comportarsi giusto e perfetto fin dall'inizio, dunque immutabile, e destinato
soltanto a loro; ma che in realtà sono riusciti a conservarsi sempre uguali a se
stessi soltanto perché privi di contatti con gruppi
estranei, isolati. Isolati in quanto si trovano in territori
estesissimi quasi privi di popolazione, ma anche perché
non si avventurano al di fuori dello spazio dove vivono.
Sono privi di «curiosità», insomma.
Il motivo è sempre
lo stesso: la curiosità nasce in chi ritiene che esistano cose diverse da quelle
che già conosce e che sia importante
scoprirle perché implicitamente pensa che potrà forse
adottarle, farle proprie. Laddove si ritiene, invece, che
non si debba mai cambiare nulla al ciclo dell'esistenza
perché fissato alla «perfezione dell'inizio», è evidente
che ogni sforzo è concentrato sulla ricerca sempre più
puntuale di questo inizio, sulla ritualità della «ripetizione». Insomma la
curiosità nasce fuori dal «Sacro».
Appena però una cultura viva, dominatrice, carica della volontà di
espandersi, ha investito le culture primitive
con la propria forza, non c'è stata battaglia: si sono avviate verso
l'estinzione.
Sono queste, dunque, le società che l'antropologo ha
studiato, senza possedere nessuna traccia precedente,
nessun punto di riferimento nella storia. Si è trovato così
a guardarle dall'esterno pur standovi dentro, con quello
«sguardo da lontano» che è il più obiettivante possibile
e al quale si deve il metodo particolare degli antropologi:
«l'osservazione partecipante». È diventato chiaro, con il
passare del tempo e con il sommarsi di sempre maggiori
conoscenze intorno ai popoli «primitivi», che tutte le
culture «vive da morte» possono, e anzi debbono, essere
definite «etnologiche», ossia «passate» anche se presenti, in qualche modo fuori
dalla storia o prima della storia, e che è la distanza, la rottura posta dalla
morte, che ce le fa percepire definitivamente estranee.
Inutile sottolineare il fatto che è l'antropologo, l'osservatore
d'Occidente, che le vede così. Loro, i «primitivi», hanno sempre ritenuto di
essere vivissimi, anzi garantiti in eterno per la propria vita in quanto nel
tempo «ciclico», nel tempo della ripetizione, non si muore mai.
È stato l'incontro con noi che li ha uccisi. Li ha uccisi,
anche quando non li abbiamo sterminati fisicamente,
perché è andata in frantumi la loro sicurezza di vivere la
vita «giusta», quella garantita dalla perfezione originaria.
Quello dell'antropologo è dunque un mestiere triste,
perché si sente acutamente, malgrado l'alone di romanticismo con il quale
l'Occidente ha investito il mondo primitivo, il senso di morte che esso porta
dentro di sé. Il suo destino è segnato. Per quanto i popoli «vivi» tentino
di non farli estinguere, di aiutare i gruppi che ne sono
portatori a conservare i propri costumi, la propria religione, la propria lingua
– come succede per esempio in America con gli Indios dell'Amazzonia, o con i Rom
in Europa –, il loro è soltanto uno pseudorispetto, una specie di imbalsamazione
e, di fatto, un rifiuto di comunicazione e un errore.
D'altra parte sono i governi attuali che impongono ai
propri sudditi questo tipo di comportamento, anch'esso
in qualche modo incluso nel «politicamente corretto».
L'obbligo ad acquisire, attraverso le norme linguistiche,
un sistema di giudizio non corrispondente alla realtà – alla realtà così come
viene automaticamente percepita – ha come prima conseguenza che nessuno
s'incontri mai con l'altro in ciò che pensa, costretto a passare sempre
attraverso la realtà stabilita dal Potere. Questo sistema
ha stravolto, falsificandoli, i rapporti fra i popoli, cancellando qualsiasi
possibilità di scambio, di aiuto, di fecondazione culturale reciproca.
Politicamente corretto
Il «politicamente corretto» costituisce ovviamente la
forma più radicale di «lavaggio del cervello» che i governanti abbiano mai
imposto ai propri sudditi. La corrispondenza pensiero-linguaggio è infatti
praticamente automatica. Inserire una distorsione concettuale in questa
corrispondenza significa impadronirsi dello strumento naturale di vita cui è
affidata la specie umana: l'adeguamento del sistema logico cerebrale alla
percezione della realtà nella formulazione linguistica dei concetti,
impedendone così anche qualsiasi cambiamento e trasformazione. Non sappiamo chi
sia stato a ideare un tale strumento di potere per dominare gli uomini e indurli
a comportarsi secondo la volontà dei governanti, evoluzione terrificante di
quella che un tempo si chiamava
«censura».
Terrificante soprattutto perché la censura
non è più visibile come tale, nessuno ne è più consapevole: è stata
introiettata. È probabile, però, anzi quasi
certo, che il laboratorio dal quale è partita l'idea, e la definizione
ad hoc,
anch'essa iniquamente falsificatrice,
di «politicamente corretto», debba trovarsi negli Stati
Uniti d'America, anche se nessuno ce ne ha mai parlato.
Si tratta in ogni caso del frutto di una intelligenza sadico-criminale che non
ha confronti nella storia, messa al servizio di un governo che possiede una
larghissima influenza su tutti i governi d'Occidente e, sia pure in forma
attenuata, su tutti i governi del mondo; e che ha
quindi potuto con facilità portare ovunque il nuovo «ritrovato».
Nessuna voce critica, che io sappia, nessuna protesta,
nessuna denuncia si è alzata nei confronti di chi ha, con
l'improntitudine di un potere assoluto, imposto il primato
del potere politico sul pensiero e sul linguaggio, definendolo esplicitamente
come tale:
politicamente corretto.
Non: «corretto» dal punto di vista politico, ma «corretto»
dal Potere. Politica e Potere sono la stessa cosa.
I governanti, dunque, nel mondo della libertà e della
democrazia, lo stesso mondo dove si sono sviluppati alcuni dei più importanti
studi sul «linguaggio-cervello-comportamento», hanno assunto il diritto a
utilizzarne il frutto
contro l'uomo.
In quello stesso mondo, le persone che sono in grado di valutarne la terribile
forza distruttiva, hanno taciuto e tacciono. I sudditi invece, da
persone «normali», fornite del semplice buon senso,
non soltanto ne percepiscono tutta l'ipocrisia e la finzione – anche quando non
possiedono gli strumenti per comprenderne la capacità trasformante – ma lo
trovano comunque sopraffattorio e ingiusto per tutti: se stessi e gli altri.
Un popolo, così come ogni singolo uomo, è sempre
animato dall'ansia, dal desiderio di comunicare le proprie idee, le cose in cui
crede; cerca sempre di convincere tutti quelli che incontra a somigliargli, ad
assumere il proprio tipo di vita. Se non lo fa con la violenza, lo fa almeno con
la persuasione, con la letteratura, con l'arte,
con lo scambio commerciale, con la pubblicità, con le
chiacchiere al mercato o intorno al pozzo, in metropolitana, negli spettacoli
televisivi. Perché in realtà l'uomo
non è mai sicuro di essere nel giusto e trova la conferma
ai propri dubbi soltanto se anche altri uomini condividono le sue idee. È la
prova più sicura, quella che dà la certezza di essere uguali nell'unica cosa che
conta: la «logica», il sistema di verifica del pensiero. Qualsiasi teoria
sulla differenza delle razze si blocca infatti davanti a questa constatazione:
due più due fa quattro per tutti.
Una cultura è viva soltanto se crede in se stessa e negli
uomini in quanto «uomini» nella loro comune identità;
se ha la forza di irradiarsi all'esterno, di accrescere il numero di coloro che
vi credono e vi si affidano. C'è però
un limite a questa possibilità. Un limite posto proprio dal
sistema logico dell'uomo di cui stavamo parlando.
Si può sempre apprendere qualcosa da altri popoli, da
altri gruppi e farlo proprio,
ma ogni sistema culturale integra comportamenti
estranei soltanto se questi non sono
in contraddizione con il modello di base, se non ne alterano la «forma»
significativa. Gli studi compiuti dai maggiori antropologi in questo campo sono
ormai dei classici, impossibili da mettere in dubbio. Da Boas a Kroeber a
Benedict a Mead a Malinowski a Leroi-Gourhan, non c'è
chi non abbia dedicato la maggior parte delle sue ricerche a scoprire e
verificare il funzionamento del «sistema significativo» che sostiene ogni
modello culturale. Il risultato è stato sempre lo stesso, e non avrebbe potuto
non esserlo visto che la «cultura» è il fattore naturale che
contraddistingue la specie umana e ne guida i comportamenti. Ogni modello
culturale possiede una «forma», nel
senso gestaltico del termine, e rigetta perciò gli elementi
estranei non compatibili, in analogia con il sistema immunitario di sorveglianza
e di identificazione con il quale li rigetta l'organismo biologico. Non appena,
quindi, viene meno la reazione di rigetto e il sistema comincia a lasciarsi
invadere da elementi appartenenti a sistemi diversi, inizia il suo itinerario
verso l'estinzione e manda il tipico segnale che l'antropologo percepisce come
«etnologico»: segnale di pseudovita, di «vita morta».
L'eurococco
È il segnale che manda oggi la cultura occidentale. Per
questo è l'antropologo ad accorgersene per primo e con
maggiore chiarezza di chiunque altro. Ma quasi tutti in
Occidente, e in particolar modo in Europa, percepiscono un disagio, un vuoto,
cui non sanno dare un nome;
un vuoto che li esaspera spingendoli a consumare, consumare, consumare: cibi,
mode, parole, tempo, valori, droghe, sesso, vita. O forse: droghe come vita,
sesso come vita. Gli stupri casuali, espressione di una violenza finale, quella
del desiderio trasformato in odio, i suicidi-omicidi dei giovani, in preda alla
pseudopotenza della droga e della velocità nelle cosiddette «stragi del sabato
sera», gridano con disperata rabbia l'esasperazione di questo vuoto. Un vuoto
che paradossalmente sembra pienissimo.
La fretta divora l'Occidente: l'assillo del non perdere
tempo impedisce di accorgersi che in realtà non si produce quasi più nulla delle
cose che contano: pensiero, scienza (il continuo sviluppo tecnologico non
inganni: la tecnologia è soltanto applicazione della scoperta scientifica, non
scoperta in sé), filosofia, letteratura, arte. Il
mercato, la pubblicità, gli indici di Borsa hanno preso il
loro posto e si ammantano di una «pienezza» di nuovo
tipo: cambiano continuamente, aggiornano il mondo,
minuto per minuto, della loro instancabile attività, delle
loro avventure, delle loro trasformazioni in vincite e perdite, mentre gli
uomini, la vita reale degli uomini, delle
società, delle Nazioni, proiettata fuori dall'orizzonte di
ciò che conta, affonda nell'indistinto, nell'amorfo, nel
brulichio di quei frammenti non significanti e senza più
nessuna possibilità di concatenarsi fra loro che stupiva e
angosciava Robert Musil. È il brulichio delle innumerevoli vite che disintegrano
un cadavere.
Una particolare infezione, l'«eurococco», di cui fantasticava Yvan Goll, è
partita dalla crisi devastante della
Germania e ha contagiato a poco a poco tutta l'Europa,
minacciando il resto del pianeta.
Sfruttando il timore di una tale desertificazione è apparso all'orizzonte
all'improvviso chi è riuscito a convincere il mondo che le Nazioni, gli Stati...
l'Italia, possono «fallire»; anzi, che sono sul punto di fallire.
Parola incredibile, priva di senso riferita a un popolo,
a una Nazione, a uno Stato. Nessun «popolo» fallisce.
Può morire; e muore. Ma chi osa definire la morte un
«fallimento»? Nazione, Stato, sono «figura» dei popoli.
Non c'è nessuna Nazione, nessuno Stato, negli indici di
Borsa. Non ci sono i popoli, il loro nome, la loro identità, la loro storia, il
loro pensiero, il loro lavoro; non ci
sono né nascite né morti, non ci sono né amori né pianti;
non c'è quella «patria» per la quale si è data la vita cantando; non ci sono né
la poesia né la musica; non ci sono, infine, né religioni né speranze di
eternità: nulla.
Si chiamano
valori
di Borsa, ma appunto, usurpando
il termine «valore», i governanti-economisti hanno compiuto un'operazione
matematicamente invalida: i valori
dei popoli non sono riducibili a numeri. Non sono quantificabili in cifre. Non
si possono né sommare né sottrarre al capitale delle monete. Una Nazione,
insomma, non è il suo Pil.
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I «bianchi»: impuri infedeli colonizzatori
Spetta a un antropologo, dunque, che si trova a vivere
oggi come «osservatore partecipante» in mezzo all'Occidente, sforzarsi di
«guardarlo da lontano» per descrivere
le fasi finali della sua inconsapevole, convulsa agonia.
[...]
Il dubbio che, di fatto, nessuno raccoglierà le tracce
della nostra esistenza è diventato con il passare del tempo quasi una certezza.
L'Europa, specialmente la parte
dell'Europa più attraente, più ricca, più facile da aggredire – quale l'Italia,
la Spagna, la Grecia, la Francia, la Germania –, sarà abitata in maggioranza da
africani musulmani i quali avranno il piacere e il dovere di eliminare
tutto ciò che ci appartiene. Siamo «bianchi», noi, impuri
infedeli colonizzatori: ricordiamocelo. Diversi e nemici
per definizione coranica, oltre che per gli avvenimenti
della storia. È assurda e fuor di senso la reazione con la
quale di solito vengono condannate, specialmente dai
cattolici e dalla gerarchia della Chiesa, le aggressioni e le
stragi di cristiani nei Paesi musulmani, specialmente in
Africa e in Medio Oriente. Se ne parla come di gesti di
odio verso persone innocenti, che non hanno fatto nulla
di male, come se non fosse l'Antico Testamento, e di
conseguenza il Corano, a obbligare i propri devoti a
combattere e distruggere gli infedeli, i nemici di Dio. Soprattutto se non si
unisse a questo comando il retaggio
di un passato ancora presente (la crudele ingiustizia dell'aggressione alla
Libia, finita con l'uccisione del suo leader, e alla quale ha partecipato, con
una delle più sciagurate decisioni politiche di Berlusconi, anche l'Italia,
tradendo i suoi patti di amicizia con Gheddafi) che sedimenta nello spirito dei
popoli appena usciti dalla colonizzazione.
Il principio — anche questo naturalmente stabilito come valido per tutti
dall'Occidente — che le religioni debbano essere tenute fuori da qualsiasi
discussione in nome del rispetto reciproco (l'Unione europea lo impone
con una legge apposita ma era già stato imposto dalla Dichiarazione dei Diritti
dell'Uomo), è in realtà tutt'altro
che una forma di rispetto, ma piuttosto un'offesa alla ragione umana e alle
acquisizioni psicologiche e cognitive che il divenire della storia porta sempre
con sé. Le religioni vanno affrontate e discusse come qualsiasi altra
idea e istituzione proprio perché sono sempre collegate
alla sfera del potere e su di esse ancora si fondano i costumi e le leggi di
gran parte del mondo. Affermare che
non possono essere studiate normalmente come qualsiasi altro fenomeno umano
significa prima di tutto riconoscere l'esistenza delle divinità, di un Dio o
degli Dei; e in secondo luogo — cosa ovviamente inammissibile per chi
fa scienza — che possiamo studiare il Sacro presso gli «altri», come abbiamo già
fatto, ma che non possiamo farlo presso di «noi».
Fino a quando l'Occidente non si deciderà, e per primi gli Ebrei, a
respingere l'idea della «rivelazione» — chiaramente appartenente all'infanzia
dell'umanità, ingenua, primitiva, o meglio «etnologica», e che porta con sé
l'intangibilità dell'Antico Testamento — non avrà nessuno
strumento valido per condannare la violenza dei credenti
musulmani. Ovviamente l'avrebbero dovuto fare subito i
discepoli di Gesù, mettendo in atto così il suo principale
insegnamento. Ma non l'hanno fatto. Il loro primo tradimento è stato proprio
questo: rimanere agganciati all'Antico Testamento.
Con il solito spirito di
dominio l'Occidente adesso pretende che tutto il mondo si adegui a una
nuova religione – la sua – chiamata «tolleranza», o meglio
«democrazia-tolleranza» (termini che la politica ha
deciso di rendere sacramentalmente interscambiabili),
che include e copre tutte le altre; scandalizzandosi inoltre
e condannando, sempre con le armi americane pronte a
sparare, coloro che osano mettere in dubbio che ciò in
cui crede l'Occidente sia il meglio per tutti.
Inutile obiettare che anche il concetto di «meglio» è, e
non può non essere, relativo. Le istituzioni non lo ammetteranno mai. E come
potrebbero? Il Potere o è assoluto, o
non è. Si sono schierate tutte, dunque, e per prima la
Chiesa cattolica con il suo ancora rilevante peso nella conduzione politica
dell'Occidente, contro questo principio.
Ma per quanto l'Occidente si ostini a voler conciliare gli
opposti, facendoli coincidere con il proprio punto di vista,
rimane vero che quasi tutto quello che abbiamo fatto e
che ancora facciamo è vietato dal Profeta e di conseguenza è «male» per i
credenti musulmani.
Una volta padroni dell'Europa, quindi, i musulmani
«giustamente» ne distruggeranno «l'europeità», come è
sempre successo quando una cultura è subentrata a
un'altra. I cristiani non hanno forse raso al suolo tutti i
templi, tutti gli edifici della Roma pagana, appena sono
diventati abbastanza forti per poterlo fare? Hanno distrutto perfino ciò che i
Romani, con il realismo e la sapienza ingegneristica che li contraddistingueva,
avevano costruito al servizio e per il benessere dei popoli sottomessi al loro
impero. Strade, mura, ponti, acquedotti,
fontane, cloache, terme, giardini, anfiteatri: tutto è stato
abbattuto, rifiutandone con l'irrazionalità dell'odio la
meravigliosa funzionalità. Quel poco che sarebbe stato
troppo faticoso o che non si era in grado di distruggere
(non esistevano le bombe allora: per questo il Colosseo è
ancora in piedi) è stato abbandonato alla sicura consunzione del tempo. Le
misere condizioni di vita dell'Europa medioevale, la spaventosa mortalità
infantile, la violenza delle malattie contagiose sono da attribuirsi in gran
parte alla mancanza di ogni regola d'igiene, all'assenza
di fognature, alla scarsità d'acqua, alla condanna del suo
uso da parte della Chiesa che aveva spronato a eliminare
le opere idrauliche dei Romani ritenute strumento di libidine e di corruzione.
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Pagina 25
L'Era della tabuizzazione femminile
[...]
Che sia stato un Maschio il primo ad assumere il potere è un fatto certo,
malgrado le appassionate dispute
sulla possibilità di un matriarcato primordiale che si sono scatenate durante i
primi passi del femminismo. Si erano gettati in questa polemica quasi tutti gli
storici, gli etnologi, gli archeologi e i giuristi più importanti, da Bachofen a
Morgan, da Maine a Stärke, da McLennan a
Westermarck spinti simultaneamente tanto dalla loro
riluttanza a immaginare un gruppo di donne combattenti e fornite di potere
quanto dal desiderio di non essere ingiusti nei confronti delle donne.
Quello che ha sempre accecato i maschi, nelle discussioni sul potere, è il
loro tabù nei confronti dello
strumento fondante di ogni potere: il pene. Tutti gli studiosi, anche i più
sensibili e acuti nell'analisi della formazione delle culture, «saltano» il pene
quale primo strumento guardando immediatamente alla mano. Gli
studiosi, infatti, hanno sempre messo l'accento sull'azione della mano per la
costruzione della cultura e, pur essendo, almeno fino a oggi, quasi tutti di
sesso maschile, non hanno mai preso in considerazione il pene come
membro che si muove e agisce all'esterno dell'organismo. Il massimo silenzio
anzi lo circonda, in tutte le scienze umane, dall'archeologia all'antropologia
alla filosofia alla storia.
Un caso esemplare, da questo punto di vista, è quello
di un filosofo famoso come Arthur Schopenhauer il quale si vanta, nel suo saggio
intitolato
Metafisica della sessualità,
di essere il primo ad aver avuto il coraggio di affrontare un argomento tanto
scandaloso (il suo saggio è del 1844).
Malgrado questo coraggio, però, è riuscito in tutto il
suo trattato a parlare della sessualità senza mai neanche
alludere all'esistenza del pene. In realtà il pene è un
«utensile» di grande complessità il cui funzionamento è
esemplare: un perfetto prototipo di motore fornito dalla
Natura in quanto non soltanto si erige e si prolunga,
produce calore-energia e «proietta» lontano da sé un
getto che colpisce un bersaglio, ma permette all'uomo
sia di misurarne internamente la forza d'emissione che
di vederne all'esterno il risultato (è molto significativo
da questo punto di vista il gioco che tutti i bambini sono
soliti fare, sfidandosi a chi riesce a gettare l'orina il più
lontano possibile). Non c'è attrezzo, dal più semplice al
più complesso, non c'è arma, che non copi sotto qualche
aspetto la forma, il meccanismo e la funzione del pene.
Non è possibile soffermarsi qui su un argomento così
importante ma è probabilmente questo il motivo per il
quale i maschi non si sono mai preoccupati e continuano
a non preoccuparsi della «fecondazione»: la funzione del
pene è quella del motore. Per quanto ci possa far sorridere, in fondo i «nostri»
maschi si comportano più o meno come se anch'essi credessero, come i popoli
studiati da Malinowski, che sia il vento della primavera a fecondare le donne.
Tutti gli uomini, invece, sanno e hanno sempre saputo che tutta la
costruzione umana si fonda sul pene. La più antica rappresentazione che ne
possediamo si trova nella grotta sottomarina Cosquer, nei pressi di Marsiglia,
datata al 28.000 a.C. La silhouette caratteristica di quello che viene chiamato
compuntamente «fallo» (l'uso della lingua straniera serve a stabilire
l'evitazione, la distanza di rispetto) la si riconosce ovunque dato che le sue
varianti concrete e simboliche sono praticamente innumerevoli, dai
menhir
alle «pietre erette» alle torri, fino a
quei bastioni che portano l'esplicito nome di «maschio».
È stato scolpito da qualche felice mano maschile un ultimo trionfale «fallo»
anche alla fine del Vallo di Adriano,
oltre a tutti quelli sparsi nelle varie torrette di guardia
lungo il percorso, e ne avevano ben donde i poveri romani costruttori di un muro
lungo 120 chilometri che taglia la Gran Bretagna dal Mare del Nord fino a
Bowness nel Mare d'Irlanda.
È vero che per giustificare in qualche modo questa
presenza imbarazzante gli studiosi hanno trovato una facile spiegazione
attribuendo ai «falli» sparsi dappertutto
la funzione di strumenti augurali di buona fortuna, di
fertilità, di bonaccioni guardiani degli orti, oppure, come massima concessione
alla mascolinità che pur sempre contraddistingue i «falli», la capacità di
intimorire il nemico. Nessuno spiega, però, perché mai il nemico dovrebbe
intimorirsi alla vista di un simbolo fallico: fra maschi evidentemente, nemici o
meno, ci si capisce molto bene.
Il silenzio tuttavia non può far credere che l'uomo
non abbia riflettuto sul funzionamento del pene e che
non se ne sia servito per la vita concreta come ha fatto
con tutte le altre parti del corpo. Le «misure», per esempio, sono state fissate
in base a quelle della mano, del
piede, del braccio, del passo, del pollice. Tutti gli oggetti
composti di una parte che penetra (è sufficiente il linguaggio) e di una che
viene penetrata si distinguono abitualmente in «maschio» e «femmina».
L'acciarino (strumento che esiste da tempi antichissimi e presso tutti i popoli
anche i più «primitivi») è formato di maschio e di
femmina, il che permette di supporre che l'idea di poter
produrre calore col movimento sfregando un punteruolo in modo accelerato contro
una pietra o contro un legno sia stata suggerita dall'esperienza del
funzionamento del pene.
È evidente che, partendo dalla mano, si può parlare
con disinvoltura dei problemi del potere riguardo alle
donne, mentre se si parte dal pene il problema diventa
insormontabile. La realtà grida ad altissima voce, però,
quale che sia la buona volontà dei maschi nel concedere
qualcosa alle donne, che «pene-potenza-potere» sono la
stessa cosa.
[...]
L'impurità femminile, dunque, è onnicomprensiva,
ossia include nella sua negatività tutte le opposizioni
possibili e può essere assunta, perciò, a carattere distintivo di un'Era
dell'umanità, così come si è fatto per la pietra, per il bronzo, per il ferro.
Il Figlio di Dio è
maschio
e siede alla
destra
del Padre. Destra e mascolinità dunque sono positive.
Si è arrivati così a istituzionalizzare, anche senza scriverlo in nessun
manuale, sulla falsariga di quanto si faceva nel mondo ebraico, lo spazio di
sinistra come spazio delle donne: nelle chiese la crociera di sinistra è stata
sempre riservata alle donne fino a quando, con l'epoca
moderna, è stata eliminata la separazione; lo stesso è avvenuto negli ospedali;
nei gabinetti pubblici, nelle toilette degli aeroporti, lo spazio riservato alle
donne è stato, praticamente fino ai nostri giorni, sempre a sinistra. Del
resto anche i partiti politici hanno scelto la sinistra per
significare la ribellione, la «negatività» nei confronti dell'ordine stabilito
e, fino a quando non è diventato più «giusto» essere rivoluzionari piuttosto che
conformisti, la sinistra politica non è riuscita a essere vista come una
scelta positiva.
Dopodiché è toccato alla «destra» ritrovarsi nella polarità negativa e, per
quanti sforzi abbia fatto per togliersi da una posizione così scomoda, non c'è
riuscita, ma il motivo è semplice: non è mai stato ammesso che la
«destra» potesse essere negativa, visto che il suo primato dipende dall'uso che
tutti facciamo della mano destra, per cui è soltanto diventato incerto che cosa
fosse realmente la destra politica. Non si poteva e non si può
riuscire, come è ovvio, a togliere l'incertezza dalla destra politica: due
polarità positive non esistono nelle
leggi della fisica... L'ugualitarismo ha portato con sé
quello di cui ancora i politici non hanno preso atto: la
fine del parlamentarismo oppositivo, o meglio, come si
vede benissimo in Italia, dopo la lunga incertezza su che
cosa fosse il partito berlusconiano visto che non si voleva assegnargli neanche
quel minimo di incerta positività che la destra porta con sé, la fine dei
governi parlamentari tout-court.
Il fatto che il «sistema» dell'impurità femminile si trovi presso tante
popolazioni musulmane odierne non contraddice l'assunto di cui abbiamo parlato,
ossia l'esistenza di un'Era dell'impurità, anzi lo conferma, in quanto
l'osservanza «alla lettera» dei precetti del Corano, che
rispecchiano quelli del Giudaismo, fa sì che i musulmani
si comportino di fatto, almeno in questo campo, come si
comportavano i pastori nomadi d'Oriente molti secoli
prima di Cristo. Quelle in atto, perciò, sono le prescrizioni sull'impurità
femminile fissate nella Bibbia nel libro
Levitico.
L'esclusione femminile dalla vita dei maschi era un'istituzione ferrea
perfino in quella Grecia classica antica
la cui civiltà ha sempre destato l'ammirazione di tutti.
Era in vigore, infatti la stessa separazione delle donne
dagli spazi abitati dai maschi e da ogni aspetto della loro
vita sociale esistente in Oriente, e soprattutto le numerose e gravissime regole
riguardanti l'impurità, cosa che
permette d'intravedere quell'ambivalenza fra Oriente e
Occidente che ha condizionato in modo negativo la vita
della Grecia tutte le volte in cui l'Oriente ha prevalso.
Un solo esempio sarà forse sufficiente a dare un'idea
di quale fosse il timore dei Greci nei confronti del corpo
femminile, un corpo ritenuto «aperto» a potenze che il
maschio non può dominare e che pertanto sono per lui
terribilmente contaminanti e pericolose. Assistere a un
parto era assolutamente vietato e comportava per l'eventuale colpevole la
condanna più grave, la stessa condanna che colpiva chi avesse compiuto un
omicidio: l'esilio a vita.
Sapere qualcosa su questo aspetto della mentalità dei
Greci è molto difficile perché gli storici hanno sempre
preferito ignorarlo, quasi che la sola esistenza potesse
oscurare lo splendore della sua civiltà. È dipesa da questo stesso presupposto
l'abitudine degli storici ad associare in un'unica dimensione culturale e
sociale il mondo greco con quello romano. Il concetto di «greco-romano» con il
trattino unificante è diventato una formula
così comune che sembra impossibile poterla discutere e
tanto meno dimostrarne l'erroneità. Di fatto gli storici
sono riusciti con il sistema del trattino, anche mentale, a
nascondere la sconfitta della Grecia e a stabilire in qualche modo il suo
primato su Roma che, come afferma il
detto che più piace agli storici, divenne prigioniera di
quella stessa Grecia che aveva fatto sua prigioniera. A
sentire gli storici è la Grecia la regina di ogni civiltà antica, anche se
viceversa la Grecia dimostra di possedere,
perfino nel campo per il quale è più famosa, l'architettura, la stessa mentalità
primitiva dei più grandi fra i popoli antichi: bellissimi templi e basta.
Nessuna strada, nessuna fognatura, nessun acquedotto, nessun ponte, nessun
edificio al servizio del popolo... nulla insomma che
indichi il possesso del concetto di civiltà. E il timore dell'impurità fa parte
del più primitivo atteggiamento nei
confronti del Sacro. Differenza assoluta con i Romani,
dunque, tanto che Cornelio Nepote, prendendo in giro
i Greci, domanda retoricamente, nelle sue
Vite dei massimi condottieri:
«Chi dei Romani si fa scrupolo di condurre la moglie a un banchetto? O quale
matrona si astiene dal farsi vedere nell'atrio della casa o dal frequentare la
società? In Grecia, invece, l'uso è ben diverso. La donna non è ammessa a
conviti che non siano di congiunti e si trattiene solo nella parte più interna
della casa, chiamata gineceo, dove nessuno che non sia parente stretto può
entrare».
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Pagina 37
«Libri di storia, addio!»
[...]
Non c'è bisogno del resto di ricorrere a motivi specifici
per essere sicuri che i musulmani provenienti dall'Africa
cancelleranno ogni ricordo della civiltà europea: manca
nei popoli africani il «senso della storia», o meglio, manca il nostro modo di
concepire la storia.
La causa è evidente: il senso della storia, la consapevolezza oggettivante
del proprio esistere e il piacere di
conservarne la memoria, la scoperta della storia come
«coestensiva alla vita» è una delle maggiori conquiste
dell'Occidente: «È qui, e soltanto qui, che è avvenuta la
più importante delle rivoluzioni, l'apparizione di una
presa di coscienza storica. Per coscienza storica intendiamo il privilegio
dell'uomo moderno di avere piena
consapevolezza della storicità di ogni presente e della
relatività delle opinioni... avere senso storico significa
pensare espressamente all'orizzonte storico che è coestensivo alla vita che noi
viviamo e che abbiamo vissuta». Questa coscienza storica fa parte di un
sistema culturale fondato su due fattori essenziali: il tempo in
divenire e il valore della vita del gruppo, di ciò che il
gruppo ha fatto e fa. Due fattori che hanno formato e
formano la ricchezza straordinaria della civiltà europea
perché, come abbiamo appena accennato, libera dal Sacro, a cominciare
dall'assoluta laicità dei Romani, talmente consapevoli di se stessi che hanno
inciso ovunque nella pietra il nome e la data del proprio agire.
«Ovunque» non per modo di dire: Europa, Africa, Asia
conservano abbondanti vestigia della presenza fattiva
dei Romani. I 75.000 chilometri di strade costruiti dai
Romani lungo tutto l'Impero parlano del loro perfetto
addestramento alla disciplina e al lavoro e della loro indefettibile volontà di
conoscere e di far conoscere metro per metro il mondo che conquistavano e che
non avevano mai visto prima. Quelle dei Romani erano,
per la prima volta nella storia, «strade» nel senso pieno
del termine: non soltanto strumenti per il commercio e
per la guerra, ma prima di tutto monumenti alla bellezza dell'«andare». Il
«cammina, cammina, cammina»
delle fiabe era istintivo nel cuore dei Romani, inestricabilmente connesso alla
potenza del piede umano che nel
momento in cui poggia sulla terra la fa sua, se ne impadronisce, le comunica la
propria essenza. Qualsiasi viaggiatore conosce bene questa sensazione di
possesso, come sia diversa l'immagine di un qualsiasi luogo quando
si può dire: «Qui ci sono stato io». Le strade dei Romani sono, perciò, prima di
tutto bellissime, una sfida alla
fisica e al tempo stesso l'espressione di un'assoluta fiducia nelle sue leggi.
La meravigliosa capacità ingegneristica dei Romani (non sappiamo spiegarci
neanche oggi, per esempio, come abbiano fatto a costruire perfettamente diritta
la via Salaria e perché volessero che fosse
diritta) ha loro permesso di superare tutti gli ostacoli
che si trovavano davanti nel realizzare le strade nel modo voluto: partivano
tutte da Roma e raggiungevano ogni punto, anche il più lontano, del territorio
conquistato. Gli archeologi hanno individuato in Tunisia e in
Algeria i resti di 357 città fondate dai Romani alcune
delle quali con più di trentamila abitanti, tutte fornite
ovviamente di funzionali vie di comunicazione. Un ponte a tre arcate eretto al
tempo di Tiberio sul fiume Beja
sopporta ancora oggi un pesante traffico. Sono monumenti che in Africa
sorprendono più che in qualsiasi altro luogo perché si erigono all'orizzonte di
un immenso deserto con la loro sagoma silenziosa e solenne, a testimonianza che
anche
in Africa, quando sono liberi e padroni di se stessi, gli uomini possono
lavorare e produrre opere mirabili. È un messaggio non di oppressione,
quindi, ma di incoraggiamento che gli Africani dovrebbero saper cogliere dalla
memoria dell'antichità.
Se il senso della storia dipende dal modo collettivo di
«vivere il tempo», dal significato globale e dall'importanza che ogni gruppo dà
o ha dato alla propria vita,
quella maggioranza di Africani che è da tanti secoli musulmana, non sente né il
bisogno né il desiderio di fare storia.
I musulmani, infatti, vivono in una dimensione del
tempo molto particolare, quella stabilita da Maometto
nel momento in cui, affermando di essere, non l'ultimo
Profeta, ma l'unico Profeta, ha chiuso, o meglio ha vuotato di senso sia il
tempo
dell'attesa
ebraico sia quello
salvato
dei cristiani.
È un tempo fermo, quindi, fisso, in base al quale i musulmani sono tornati
di fatto (anche se forse non lo sanno) al tempo naturale-ciclico, comune a tutte
le popolazioni tranne che agli Ebrei e ai cristiani, a un
continuum
in cui gli avvenimenti, pur importanti, tuttavia non dipendono dall'uomo ma
dalla volontà insindacabile e perfetta di Allah.
L'oggi, insomma, per l'uomo musulmano è, e deve essere, ugualmente buono o
cattivo come era ieri e come sarà domani perché così voluto da Allah. È evidente
che non esiste «storia» laddove non sono gli uomini a determinarla.
Ma anche per le popolazioni africane non musulmane è difficile capire e
amare la storia nel modo in cui la
capiamo e l'amiamo noi. Sia quelle «convertite» (termine di comodo che adopero
malvolentieri soltanto per
farmi intendere ma che sarebbe bene eliminare) al Cristianesimo protestante o
cattolico, sia quelle rimaste fedeli alle proprie credenze animistiche e ai
propri riti «naturali», si trovano, infatti, in una situazione assai
conflittuale nel conservare la memoria di sé e del proprio passato. Il conflitto
nasce dal fatto che la loro vita a un certo punto ha subìto un cambiamento
totale, una «rottura»: la colonizzazione.
Si tratta di popoli – come per esempio i Bantu, gli
Zulu, i Dogon, i Bambara (impossibile qui citarli tutti) –
il cui passato è spaccato fra il prima e il dopo della colonizzazione. Il
«prima», quello della «storia» orale, dei
miti e dei costumi tramandati attraverso i racconti degli
sciamani, degli stregoni, degli anziani capitribù, è iniziato
ab illo tempore
ed è fisso per sempre, nessuno lo
può cambiare; il «dopo», quello della «storia vera», è
iniziato con la colonizzazione che li ha costretti a diventare consapevoli di se
stessi
visti dagli altri:
neri, inferiori, schiavi. Due modi radicalmente diversi di guardare
agli avvenimenti e impossibili da definire (e da accettare) come «storia».
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3.
La rottamazione dell'Europa
«La grande sassaia universale»
Il segnale più forte, tuttavia, della disgregazione e del non
senso in cui viviamo è quello della «rinuncia». Rinuncia a
estendere i propri valori, la propria religione, la propria
lingua, la propria cultura; un atteggiamento che, come ho
detto, caratterizza le culture etnologiche.
Cercherò di analizzare in profondità questa «rinuncia» e apparirà evidente
che viviamo davvero in una cultura morta da viva, dove quei comportamenti che
vengono presentati ed esaltati come conquiste — l'allargamento a tutto il
Continente del medesimo sistema di vita, di significati, di istituzioni
politiche, di leggi, di «valori» che va sotto il nome di unificazione europea,
con identici «diritti all'uguaglianza» nella libertà di aborto,
di matrimonio omosessuale, di cambiamento di sesso, di
fecondazione artificiale, di eutanasia, di suicidio assistito, di morte
cerebrale, di trapianto di organi — sono in
realtà soltanto manifestazioni della dissoluzione dell'Europa, della rinuncia al
futuro del gruppo, dell'abbandono di qualsiasi razionalità di vita.
È «la grande sassaia universale» di cui parla Gottfried
Benn: «Crisi espressive e attacchi d'erotismo: questo è
l'uomo di oggi, l'interno un vuoto».
Su questa grande sassaia non si alza la poesia, ma lo
stridio di vite amorfe, prive di pensiero, affogate nel vaniloquio, nelle
ricette di cucina, nel pettegolezzo paraerotico, nei giochi televisivi, cui
collaborano adesso al loro meglio anche i maschi, diventati ovviamente
bravissimi nel disprezzato regno cui un tempo erano relegate le donne.
Le normative dell'Unione europea nei campi più delicati dell'etica
garantiscono il predominio dell'individuo
sulla società, cosa che già di per sé segnala che si odia il
gruppo, che se ne vuole la disintegrazione e la morte.
Q
uale senso dare se non questo ai circa 110.000 aborti
di Stato annuali in Italia, mentre si compiono sforzi inauditi per far nascere
un bambino da una donna di settantacinque anni? Quale senso dare al
«prendere in
affitto» (espressione raccapricciante di un mondo che vive di
mercato) un utero per far nascere un bambino di cui non
si sa chi siano il padre e la madre?
Quale senso dare, soprattutto, al
matrimonio omosessuale? Questo appare in
realtà come una esplicita dichiarazione di guerra alla
propria sopravvivenza da parte della società che l'ha legiferato.
Nel governo italiano c'è chi programma l'insegnamento nelle scuole di Stato
(assunte a organi dell'ideologia dei governanti) dell'uguaglianza degli
omosessuali, cosa che ovviamente non si sa come potrà essere dimostrata salvo
che con il perfetto strumento di falsificazione che è il «politicamente
corretto». Ma lo scopo è sempre lo stesso: spingere il più rapidamente possibile
gli Italiani e gli Europei alla morte.
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Questo è il punto più importante del nuovo assetto
sociale costituitosi con il passaggio dalla società dei doveri a quella dei
diritti: lo Stato è il Potere, è tutto. Non
rappresenta più quindi il Popolo, anche se l'apparenza
formale di un'organizzazione parlamentare lascia a tutti
questa illusione. L'ugualitarismo dei diritti annulla, infatti, la coscienza –
quindi la libertà – del singolo individuo. Nessuna «repubblica» può esistere
senza la libertà di coscienza di ognuno dei cittadini. Che votino oppure
no, in un'apparenza formale di democrazia, non fa naturalmente nessuna
differenza.
Un esempio sarà sufficiente: in Italia la battaglia per
la liberalizzazione dell'aborto ha conosciuto punte polemiche che forse non sono
state raggiunte in nessun altro
Paese, anche per il forte impegno della Chiesa cattolica
nel cercare di impedirlo. Alla fine, però, tutte le istituzioni sono state
d'accordo sull'obbligo di effettuarlo nelle strutture pubbliche, a carico dello
Stato quindi, ossia di tutti i cittadini. E quando si paga per l'esecuzione di
qualsiasi cosa se ne diventa direttamente responsabili.
Permetterne l'esecuzione in cliniche private, almeno nei
casi in cui non fossero presenti motivazioni di carattere
medico-sociali, quali gravi patologie nella madre o nel
feto, avrebbe significato, invece, un'effettiva possibilità
di scelta individuale. La Chiesa si è arroccata nell'assolutezza del suo «No»:
no in ogni caso, per qualsiasi motivo, neanche per grave pericolo della salute
della madre o per malformazioni o gravi handicap nel bambino. Ai cattolici è
proibito, infatti, l'accertamento ecografico durante la gravidanza in base al
presupposto che, anche se
fosse accertata una qualsiasi malformazione (anche una
decerebrazione) o una grave malattia genetica, non sarebbe in nessun caso lecito
l'aborto. Questa assolutezza
ha di fatto impedito qualsiasi scelta da parte dello Stato
con la conseguenza che tutti noi siamo responsabili di
queste nascite che avvengono nelle strutture pubbliche,
scelta che viceversa dovrebbe essere lasciata alla responsabilità dei genitori.
In questo campo, del resto, un campo così difficile e
tuttavia determinante come quello della bioetica, gli errori compiuti dalla
Chiesa sono stati davvero gravissimi,
tanto gravi da diventare anch'essi una prova in più della
volontà di uccidere la civiltà europea uccidendone il cristianesimo. Sarà
sufficiente accennare al consenso diretto del papato alla dichiarazione di
«morte cerebrale»,
che non è stato soltanto un consenso ma, nella persona
di Karol Wojtyla, addirittura un entusiasmo e un'incitazione a compiere il
massimo numero possibile di trapianti. In Wojtyla era presente, forse, e agiva a
livello universale dato l'assoluto narcisismo che lo caratterizzava, la sua
convinzione che essere cristiani significasse essere «vittime sacrificali». Ma
in realtà con l'esaltazione dei trapianti si è dato corpo all'eterno
homo homini lupus
che abita nel più profondo inconscio di ogni essere umano, come l'orrido
traffico di organi ha subito dimostrato.
La compravendita è proibita dalla legge; però, malgrado sia certa
l'esistenza dell'acquisto e della vendita
(basta fare un giro d'orizzonte in internet) che io sappia
non è mai stato processato o condannato qualcuno in
Italia per questo motivo. Purtroppo le notizie sull'uccisione di bambini per
utilizzarne gli organi scompaiono
quasi subito dai giornali senza alcun seguito. Suore missionarie in Mozambico
hanno denunciato, tramite «l'Osservatore Romano», il giornale del Vaticano, la
sparizione dai loro collegi e orfanotrofi di bambini di cui vengono ritrovati
nelle strade e nella spazzatura i cadaveri
chiaramente smembrati a scopo di trapianto, ma anche
questa denuncia non ha avuto seguito pur essendo un
fatto notorio che nei Paesi più poveri, come il Mozambico, il Messico, l'India i
bambini scompaiono per questo
motivo. E non soltanto nei Paesi più poveri.
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Giorgio Napolitano si è felicitato del fatto che, guidata da un esperto
delle funzioni bancarie, l'Italia recuperasse il proprio onore in Europa. Una
convinzione che fa venire i brividi. L'onore dell'Italia, Presidente? Ma cosa
dice? Quale uomo può avere nelle sue mani l'onore dell'Italia? L'onore di
Galileo, l'onore di Leonardo, l'onore
di Michelangelo, l'onore di Dante, l'onore di Mazzini,
l'onore di Garibaldi, l'onore di Leopardi, l'onore di Verdi? No, no,
tranquillizziamoci: l'uomo di cui parla il Presidente è un banchiere, il signor
Mario Monti, che non potrebbe avere in mano, con o senza l'aiuto del Presidente
della Repubblica, l'onore di nessuno, salvo il proprio
naturalmente. E anche il suo, chissà? Come membro della Commissione europea
presieduta da Jacques Santer, è
stato costretto dal Parlamento a dimettersi, insieme a tutta la Commissione (di
cui faceva parte anche un altro italiano, Emma Bonino), per cause veramente
infime: compaiono infatti nella perizia sui bilanci della Commissione,
effettuata dal Comitato di esperti indipendenti nominato
dal Parlamento, insieme a un macroscopico «buco di bilancio», operazioni di
corruzione quali «frode, cattiva gestione, nepotismo, favoritismi, contratti
fittizi»: termini imbarazzanti e quasi inverosimili in rapporto a quello che
avrebbe dovuto essere il governo di un grande e nobile Impero.
È stato poi consulente della banca Goldman Sachs,
una delle maggiori protagoniste nella diffusione dei titoli
«derivati» che hanno provocato il crack mondiale del
2008 e, con totale noncuranza dei conflitti d'interesse, è
stato anche consulente dell'importante agenzia Moody's.
Finalmente, dopo le operazioni di distruzione dei titoli sovrani degli Stati,
appositamente messe in atto da quei potenti dietro le quinte che perseguono
l'unificazione mondiale, è giunto al posto cui aspirava da molto tempo, quello
di capo del governo italiano.
Malgrado tutto, però, il salto non è stato facile: gli
Stati sono lenti a morire e i banchieri sempre più impazienti. C'è voluta una
bella spinta: con un atto di forza
del Presidente della Repubblica ha preso corpo, fra tutte
le falsificazioni del bene cui assistiamo impotenti in questo periodo, anche la
«falsificazione della democrazia».
Povera Italia! Una persona autoritaria, che al momento
giusto coglie la palla al balzo per instaurare la dittatura,
non le è mai mancata. Questa volta, però, perfino come
dittatura è talmente grottesca che non si sa in quale modo definirla: sono
ancora in carica, infatti, i parlamentari
eletti dal popolo, ma si sono trasformati, votando le decisioni di un governo
formato da persone non elette, in
truffatori di se stessi, del Parlamento e della volontà di
coloro che li hanno eletti. Forse Giorgio Napolitano, vissuto fin dalla prima
giovinezza nell'ambito degli ideali
del Partito comunista sovietico, ha voluto fare omaggio
a una delle invenzioni più care ai fondatori del comunismo in Russia: il governo
dei tecnici. Si erano definiti così, infatti, Lenin, Trockij e i loro primi
compagni per giustificare il fatto che a prendere il potere, formando il governo
postrivoluzionario, erano degli intellettuali che
non avevano mai avuto cariche politiche.
C'è da aggiungere un particolare ai «meriti» di un
banchiere capo del governo, un particolare interessante
dal punto di vista del problema della lingua di cui ci siamo occupati: nel mondo
dell'economia e della finanza ci
si vanta di parlare soltanto in inglese. Non parlare la propria lingua madre è
stato sempre per qualsiasi uomo, come abbiamo già visto, un enorme sacrificio,
una privazione dipendente dalla necessità, come per chi è emigrato e si trova in
terra straniera. Nulla quanto la rinuncia
alla lingua madre rappresenta e allo stesso tempo dà sostanza alla condizione
dell'esilio, dell'estraneità. Evidentemente non è così per banchieri ed
economisti, ma forse un motivo c'è. La propria lingua è tutt'uno con il
pensiero: avviene molto raramente che uno scrittore non si
serva nelle sue opere della propria lingua madre, anche
quando viva da moltissimi anni in un Paese straniero e
ne parli abitualmente la lingua. Il fatto è che economisti
e banchieri non sono persone di pensiero. Anzi ne rifuggono, così come rifuggono
da qualsiasi sapere che non rientri nell'economia.
Il rifiuto di uscire dal proprio ristrettissimo campo
d'azione, cosa che nell'universo scientifico moderno caratterizza soltanto gli
economisti, dipende da alcuni precisi dati psicologici. Il primo ed essenziale è
il primato di se stessi: se l'economia interessa me significa che è l'unico
sapere realmente «sapere», un sapere assoluto che
non ha bisogno di nulla che lo completi così come Io sono assoluto e nulla è
maggiore di me. Si tratta, dunque,
di una convinzione che fa parte della personalità dell'economista e che
naturalmente contraddice il concetto
stesso di «scienza», portando a pericolosi errori. L'economia sarebbe, in questo
senso, la scienza delle scienze,
così come è stata per molto tempo la teologia.
Di fatto per molti economisti e finanzieri l'economia
è davvero una teologia, con il medesimo assunto di partenza dei teologi: chi non
conosce l'economia è analfabeta, è escluso dal mondo del sapere, così come il
non iniziato, il non circonciso è escluso dal mondo «vero»,
quello del «mito» fondativo della tribù e dalla capacità
d'azione che ne discende. Per questo i cultori dell'economia formano una società
chiusa, forte e solidale soltanto all'interno del proprio cerchio, stranamente
simile a quella società segreta potentissima e piena di conoscenze magiche che
nelle culture primitive è costituita dai «lavoratori del ferro», quelli col
fuoco sempre acceso. La Borsa è questo fuoco.
Sacerdoti del mercato
Questo atteggiamento esclusivo è stato contestato agli
economisti da molti studiosi anche del loro campo, quali
Karl Polanyi
e
Amartya Sen
, quest'ultimo insignito del
Premio Nobel 1998. Molto sensibili alle teorie antropologiche, ambedue
dimostrano con i loro studi come sia
errato ritenere il mercato e la sua «crescita» il fattore
fondamentale dell'economia e come nessuna dinamica
economica possa essere valutata in assoluto, avulsa dall'insieme di ogni
specifica società.
Alla luce di queste profonde riflessioni, dettate oltre
che dall'intelligenza, anche da una grande conoscenza
dell'antropologia e di molte società etnologiche e antiche, il fondamentalismo
dei banchieri che governano attualmente l'Europa fa veramente paura. Si tratta,
infatti, di un fondamentalismo radicato nell'idea ossessiva che
la salvezza degli Stati dipenda dal mercato e dalla «crescita». Il fatto che
questa teoria sia errata non li tocca e
non li può toccare visto che, se la salvezza del mondo dipende dal mercato e
dalla crescita è perché i sacerdoti
(gli esperti, i tecnici) del mercato e della crescita sono loro, gli economisti.
Potrebbero mai i sacerdoti di una
qualsiasi religione affermare che Dio non esiste?
Quindi
«mercato e crescita» sono diventati ormai concetti e termini assoluti e al tempo
stesso apotropaici, analogamente agli enormi falli priapeschi che un tempo
sorgevano nei campi a proteggere le messi.
Crescita! Crescita! Alle prese con il dovere assoluto
della «crescita», i banchieri e i governanti d'Europa, e
con loro purtroppo i poveri popoli che ne sono governati, sembrano diventati
ormai come quelle madri che pesano ansiosamente il neonato tre volte al giorno,
pronte a vedere avvicinarsi un pericolo di morte e a chiamare il
pediatra se la bilancia non segna almeno un grammo di
più della volta precedente. Invece di chiamare il pediatra si aumentano le
tasse, ma il meccanismo è lo stesso.
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4.
Un circolo chiuso
Relativismo e crisi della Chiesa
Non pensiamo a un futuro che sia nostro, che riguardi
noi, soltanto noi e non l'universo mondo.
È questo che
manca all'Europa: l'aspirazione a un futuro. Manca perché la maggior parte dei
suoi tratti culturali è esaurita.
Manca perché una società priva di
vis,
dove non si sa più
che cosa sia la «virilità», la potenza della virilità, e addirittura la si
disprezza, non possiede più alcuna spinta aggressiva verso l'esterno e anzi si
trova in stato di passività
e di soggezione. Manca perché i suoi leader, governanti,
clero, giornalisti l'hanno spinta e la spingono ogni giorno a perdere le proprie
caratteristiche per unificarla e
omologarla al resto del mondo. Laddove tutti sono
«uguali» (o vengono costretti a sembrare uguali) la passività dei sudditi è
assicurata, ma è assicurata anche l'assoluta debolezza della società.
L'Europa è diventata «femmina». Tutte le caratteristiche sociali e culturali
dei «bianchi», quelle che erano implicite nella definizione stessa di «bianchi»
come conquistatori, ma anche come portatori della civiltà più ricca e
sviluppata in ogni campo, sono sparite. Certo, l'Europa
appare ancora molto ricca in confronto all'Africa o all'India, ma si tratta di
pura ricchezza materiale, una ricchezza che del resto si va anch'essa esaurendo
rapidamente.
È sparita però la forza della società fondata sulla famiglia, sull'autorità
del padre e dei maschi in generale, su
una desiderata procreazione, sulla solidarietà dei legami
di parentela. È sparito l'amore per la Patria, l'orgoglio per
il patrimonio inestimabile del diritto, della letteratura, dell'arte, della
musica, che caratterizza la storia d'Europa. È
quasi del tutto sparita anche la fiducia nella Chiesa cattolica, la
partecipazione alle cerimonie liturgiche, diventata
più una tradizione sociale che un gesto religioso. È sparito
l'ossequio verso il cristianesimo come religione portatrice
di grandi valori etici, qualità mai negata fino a oggi anche
dai non credenti, al di là della critica pur asprissima nei
confronti del clero e del suo comportamento.
Tutto, insomma, assolutamente tutto quello che costituiva il patrimonio
della civiltà europea, è andato in rovina, si è dissolto con una rapidità quasi
incredibile. Non c'è stato «valore» che, all'improvviso, non sia stato
dichiarato ingiusto, sbagliato o comunque irreparabilmente tramontato. Senza
battaglia. Senza neanche la più piccola resistenza.
All'inizio era sembrato che la gerarchia cattolica volesse fare qualche
tentativo per opporsi a questa dissoluzione, ma si è capito quasi subito che
viceversa si trattava del voltafaccia più sorprendente che la storia della
Chiesa avesse mai registrato. I papi, infatti, nella persona
del beneamato Karol Wojtyla, hanno cominciato a «chiedere scusa» al mondo per
gli errori commessi in passato.
Chiedere scusa? Chiedere scusa della storia? È un'idea
talmente grottesca che ci si domanda come possa essere
venuta in mente a qualcuno, o se per caso si trovino oggi
a capo della Chiesa dei bambini che giocano con il mondo e con se stessi, fuori
dalla realtà. Wojtyla «chiede scusa» per le Crociate, per l'Inquisizione, per
decisioni di «potere» che hanno caratterizzato il pensiero e l'azione
della Chiesa attraverso i secoli e che hanno inciso sulla
vita di milioni di persone e sulle istituzioni di quasi tutto il mondo!
Tornare indietro nella storia non è possibile, è chiaro,
ma chiedere «scusa» offende la ragione, offende i popoli e
la realtà della storia. Soprattutto rivela fino a che punto si
tratti di un gesto dettato, sotto le apparenze dell'umiltà,
da una presunzione spropositata: sono talmente piccoli i
popoli, talmente piccole le loro sofferenze, talmente piccola in fondo la loro
storia in confronto alla Chiesa, che
questa può perfino chiedere scusa per averla provocata.
L'unica cosa che la Chiesa potrebbe fare, cancellando
la vergognosa idea delle scuse, è ripensare oggettivamente a quali fossero i
motivi delle azioni del passato e imparare, proprio in base a questo passato, a
non compiere gli stessi errori. Cambiare quindi molte delle premesse
teologiche che hanno guidato il comportamento della
gerarchia e del clero, riconoscendo quanto influisca il
contesto del momento su ciò che si crede giusto.
La Chiesa, viceversa, continua a camminare nello
stesso modo in cui ha sempre camminato, proclamandosi assolutamente certa di ciò
che fa, senza porsi neanche
per un attimo l'interrogativo se le conoscenze storiche
accumulatesi negli ultimi due secoli con l'apporto delle
scienze umane, non siano da prendere in considerazione
proprio da questo punto di vista. I papi condannano in
assoluto il «relativismo» (non soltanto Wojtyla, visto che
anche il suo successore, Joseph Ratzinger, ha ribadito
questa condanna), ma proprio il relativismo, ossia la presa in considerazione
del punto di vista del soggetto agente in un determinato contesto, può spiegare,
almeno in parte, anche molti degli errori compiuti dalla Chiesa.
Certo, se prendesse in parola se stessa quando afferma di voler chiedere
scusa del proprio passato, la Chiesa
dovrebbe tirar giù dagli altari quasi tutti i Santi, anche i
più grandi e famosi. Quelli che hanno esortato a compiere le crociate, per
esempio, a cominciare dal fondatore di Cluny, il celebre san Bernardo; poi tutti
quelli – e sono una foltissima schiera – che hanno predicato contro le streghe,
contro gli Ebrei, contro gli omosessuali,
mandandoli al rogo. Infine gli inquisitori-giudici che
hanno condannato alla tortura e al rogo ogni genere di
supposti eretici. Fra questi sarebbe doveroso che la
Chiesa riconoscesse i gravissimi errori del gesuita Roberto Bellarmino,
dichiarato non soltanto «santo» ma anche
«dottore» (massimo conoscitore di ciò che è la Chiesa,
dunque), il quale può vantarsi di aver giudicato e condannato durante la sua
lunga vita (è nato nel 1542 ed è morto nel 1621), insieme a tanti altri, due
delle persone più famose al mondo: Giordano Bruno, torturato e bruciato in Campo
de' Fiori a Roma, e quel Galileo Galilei
che pretendeva di saperne più della Bibbia su ciò che fa
il sole, condannato a vestire i panni del pentito in processione intorno a San
Pietro e, non potendolo bruciare a causa della sua fama mondiale, agli arresti
domiciliari a vita e alla recita tutte le settimane dei Salmi penitenziali
(durissima condanna questa per uno scienziato che non
poteva pentirsi di ciò che sapeva essere vero).
La Chiesa, però, non lo fa. Le parole di scusa pronunciate prima da Wojtyla
e poi da Ratzinger sono parole
vuote, simili a quelle di tutti i governanti e i leader del nostro tempo perché
fanno parte del sistema ormai ben noto
della «falsificazione del bene». Perciò non contano. È vero: i papi ci hanno
fatto le loro scuse e noi dobbiamo tenercele; e magari onorarli per questo. Ma
le parole sono parole. Joseph Ratzinger ha perfino pronunciato un lungo
elogio di Bellarmino nell'udienza generale del 23 febbraio
2011, affermando che: «Un segno distintivo della spiritualità di Bellarmino è la
percezione viva e personale dell'immensa bontà di Dio», senza nemmeno accennare
alla condanna di Giordano Bruno e di Galileo. Evidentemente
l'immensa bontà di Dio si manifesta anche nel torturare e
far morire sul rogo chiunque osi pensare, studiare, riflettere con la propria
testa. La chiesa parrocchiale dedicata
al santo dottore Bellarmino, a pochi passi di distanza dalla
piazza dove è stato bruciato Giordano Bruno, continua a
funzionare regolarmente ogni giorno. Né il parroco né il
vescovo hanno creduto alla buonafede dei papi e di conseguenza non hanno
minimamente pensato che fosse necessario dedicarla a qualche altro «eroe» della
santità, cancellando la dedica precedente.
La Chiesa si è affrettata invece, quanto non aveva mai
fatto in passato, a beatificare Karol Wojtyla, uno dei papi che hanno fatto
maggior danno al cristianesimo a causa della sua scarsa capacità di guidare la
Chiesa. Probabilmente nell'ambito della gerarchia incaricata della
beatificazione c'è chi intuisce il pericolo di non poterlo più
canonizzare se si lasciasse passare del tempo: la falsificazione del bene è
diventata ormai in Europa una patologia ammorbante, all'ultimo stadio. Sono
molti adesso a rendersene conto: presto tutta la costruzione crollerà.
La sessualità in Occidente
A dire il vero il segnale d'inizio per la morte dell'Occidente è stato dato
dall'America con il processo a Bill Clinton. Un processo per molti aspetti
«medioevale», nel quale il procuratore Kenneth Starr ha assunto le vesti
dell'inquisitore; le stesse vesti dell'inquisitore che,
prima di condannare al rogo Gerolamo Savonarola per
«eresia», ha voluto accertarsi, ispezionandone l'ano personalmente, della sua
colpa di sodomia.
Era l'anno 1498 della splendida civiltà rinascimentale
fiorentina. Sono passati esattamente cinque secoli. Il
procuratore Starr ha compiuto lo stesso gesto, nel momento in cui ha prelevato
il sangue dal braccio del Presidente degli Stati Uniti d'America per accertarsi
di chi fosse lo sperma raccolto proditoriamente sulle vesti di
Monica Lewinsky. Il processo a Clinton si è svolto quindi, nel 1998 e nella
splendida civiltà dell'America, sulle
stesse direttrici del processo a Savonarola: in teoria il tradimento politico,
il falso giuramento del Presidente (l'eresia); di fatto la colpa sessuale.
Se con il processo a Clinton è iniziata la fine dell'Occidente, con il rogo
del Savonarola aveva avuto invece
inizio l'inesorabile declino della Chiesa, un declino che
nessuna Controriforma ha in seguito potuto arrestare.
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[...] Aggiungo, per quanto mi riguarda personalmente, che la cosa che mi
ha indotto a tenere in particolar modo fissa l'attenzione
su determinati comportamenti, non è stato il fatto che la
maggior parte delle norme, dei divieti, dei tabù riguardassero le donne, ma il
«silenzio» totale e assoluto su
questi argomenti che hanno conservato tutti – uomini,
donne, medici, psicologi, storici, filosofi, sociologi, antropologi, teologi –
per duemila anni e oltre. Per giunta
gli storici, non appena sono comparse all'orizzonte le
scienze sociali, si sono premurati di precisare che il metodo storico non
permette di dedurre nulla dal «silenzio» per cui il cerchio sembrerebbe chiuso.
Insomma, perché?
Il sistema sessuale, fattore fondamentale della vita di
qualsiasi società, presenta caratteristiche assolutamente
originali in Europa a causa dell'itinerario – mentale e
concreto – compiuto nel passaggio dalla psicologia e dai
costumi dell'antichità classica a quella dei discepoli di
Gesù, i quali erano Ebrei pieni di dubbi ma anche di
propositi nuovi indotti dalle parole e dalle azioni del loro maestro. Questi
propositi alla fine si sono concretizzati in uno strano «accomodamento».
Il «salto» è stato vertiginoso. Tanto vertiginoso che
ancora adesso è molto difficile per gli storici trovare delle spiegazioni
plausibili alla caduta dell'Impero romano.
Forse si può però intravedere almeno una delle cause
principali nei significati sotto traccia ma assolutamente
coercitivi, nella loro sistematicità logica, sottostanti all'ebraismo e alla
loro clamorosa «conclusione» con il cristianesimo. Una conclusione di cui
vediamo oggi dissolversi le ambivalenze, i lati oscuri, gli equivoci, cosa che
potrebbe configurarsi, invece che nell'attuale rabbiosa
distruttività, in un'ancora di salvezza per liberarsi della
Chiesa come seconda Sinagoga e del cristianesimo ebraicizzante codificato dai
discepoli di Gesù e aggrapparsi
esclusivamente alle idee di verità della parola, di libertà
dalla prigionia del Sacro e di perdono reciproco che Gesù ha predicato e per le
quali è stato ucciso.
La radice prima del rapporto degli Ebrei (i maschi,
ovviamente, è inutile sottolinearlo in quanto sono stati
sempre e soltanto i maschi i soggetti creatori e agenti delle culture) con Dio è
un'unione sessuale, il matrimonio
fra Dio e Israele. Dio rivolge tremendi rimproveri al suo
popolo in termini di «tradimento», di «adulterio», di
«prostituzione». Israele è la Sposa di Dio. Il patto di alleanza avviene
attraverso un'offerta sessuale: il prepuzio.
«Tuo sposo è il tuo creatore, Signore degli eserciti è il
suo nome» dice Dio attraverso le parole del profeta
Isaia. Il Secondo Libro di Samuele conferma con gli stessi termini: «Ricondurrò
a te tutto il popolo, come ritorna la sposa al marito». Il rimprovero di Geremia
è ancora più incalzante: «Sopra ogni colle elevato e sotto ogni albero verde, ti
sei prostituita... tu ti sei disonorata con
molti amanti e osi tornare da Me? Sfrontatezza di prostituta è la tua». In un
passo del libro di Osea, Jahvè dice
esplicitamente agli Ebrei che devono chiamarlo «marito». E nello stesso libro
Dio dice agli Ebrei che «li sedurrà» nell'accezione del termine che indica il
possedere una vergine.
Naturalmente si sono sempre interpretate queste
espressioni come metafore, ma si tratta, invece, di una immagine matrimoniale
che è primaria nella fondazione culturale ebraica in quanto identifica la
posizione degli uomini davanti a Dio come femmine. Il corpo degli Ebrei è
un corpo femminile, offerto nel prepuzio a Dio e che perciò deve essere
continuamente purificato, lontano da ogni
contaminazione. Viene a mancare pertanto nella cultura
ebraica la struttura di comunicazione sacrificale rappresentata ovunque
dall'offerta delle donne e la «sacrificalità» si configura in modo diverso da
tutte le altre religioni
perché si forma una specie di corto circuito omosessuale
nella comunicazione diretta fra il gruppo e Dio, ambedue
«maschi». È il motivo per il quale l'omosessualità, il rapporto sessuale con un
altro maschio, viene respinto con
orrore, assolutamente condannato: rappresenterebbe il
vero, unico «adulterio», il tradimento nei confronti dello
Sposo (il rapporto con la donna, con la moglie, non è
adulterio perché non è un «rapporto», è un contatto finalizzato esclusivamente
alla procreazione e il rapporto con
le prostitute è vietato). Neanche una goccia di sperma può
essere dispersa o cadere in terra (con il divieto della masturbazione); tutti i
maschi primogeniti sono «Suoi» e
debbono quindi essere riscattati dal servizio divino.
In realtà, dunque, c'è un'omosessualità implicita nella
cultura ebraica, quella vissuta mentalmente, affettivamente, simbolicamente con
la mascolinità di Dio.
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Le religioni ne sono lo specchio in quanto, essendo fondate sul modo di
affrontare la morte, includono necessariamente una concezione del tempo. Ogni
popolo, quindi, quando adotta una religione inventata da altri popoli,
è costretto ad adattarla, ad «aggiustarla» in funzione di
questa esigenza. Questo è un punto molto importante di
cui tenere conto e che ha rilevato Franz Boas criticando
l'eccessiva facilità con la quale nei primi studi etno-antropologici si
spiegavano i fenomeni di somiglianza culturale attraverso la «diffusione».
È vero che gli uomini
sono assetati di idee nuove e che queste si diffondono a
grande velocità perché inventare, creare, non è facile; ma
non succede mai che un popolo si appropri delle idee di
un altro popolo senza cambiarne o il significato, o lo scopo, o qualche altro
attributo. Il motivo è evidente: il nuovo elemento non può entrare in contrasto
con gli altri fattori del modello culturale già esistente.
Nell'ambito delle religioni bibliche lo si vede chiaramente: il «tempo» dei
musulmani è tipicamente orientale e conduce a
non fare,
abbandonandosi alla volontà di Allah, con tutte le lentezze, le inerzie, le
pigrizie che questo comporta. Nel cristianesimo, invece, sono state compiute
vere e proprie acrobazie spirituali e intellettuali
(teologiche) per giungere a realizzare gli «aggiustamenti» necessari ai diversi
caratteri dei popoli. Nei primi secoli le diatribe che si sono scatenate sulla
natura umana e divina del Salvatore hanno posto le premesse per sviluppare poi
la fisionomia religioso-culturale che ha diviso le Chiese d'Oriente da quelle
d'Occidente. In Occidente si è posto l'accento sull'umanità del Cristo, quindi
sul «fare», sul soffrire, sul voler «vivere la vita» e combattere la morte,
mentre in Oriente si è posto l'accento
sulla Trinità di Dio, che ovviamente comporta la «contemplazione» dell'al di là
e non l'agire di qua.
In seguito, la violenta battaglia pro e contro le immagini ha dato la misura
di quanto fossero diversi i popoli.
Il predominio dello spirito contemplativo dell'Oriente
ha favorito il culto delle icone, il «guardarle» e l'«essere
guardate» come forma di preghiera, escludendo quasi
del tutto la rappresentazione di scene di vita del Vangelo
(anche la Madonna non può essere rappresentata da sola, ma sempre insieme al
Figlio). I popoli d'Occidente hanno invece colto l'occasione per abbandonarsi
senza limiti alla loro passione per la «forma» e per la varietà
dell'arte in tutti i campi, dall'architettura alla scultura,
alla pittura, alla musica.
La vita di Gesù, uomo fra gli uomini, ha suggerito i
temi agli artisti, ma non li ha creati. Sono stati gli innumerevoli artisti
fioriti attraverso i secoli in Italia e in Europa a impadronirsi di Gesù per
manifestare la loro straordinaria capacità di «spiegare» con l'arte tutto ciò
che non si può spiegare a parole: l'immensa dolcezza
della Madre con il Bambino, l'assoluta bellezza di un'Ultima cena; l'attonito
silenzio del mondo davanti a un uomo che, mentre chiede aiuto come tutti gli
uomini davanti alla morte, grida però parole mai udite: «Perdona!». Quel
«perdona loro perché non sanno quello che fanno» non è mai stato né pensato né
detto da nessuno prima di Gesù e ha veramente cambiato il mondo. Lo ha
cambiato perché lui l'ha pensato e l'ha detto e gli uomini, tutti gli uomini, se
ne sono commossi, l'hanno capito
e questo basta a testimoniare che l'uomo ne è capace.
Per quanto atroce sia stata la storia dell'Occidente dopo
di lui, il mondo è davvero cambiato con Gesù. L'arte ne è la prova.
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Addio al Padre
Abbiamo ricostruito questo percorso per mostrare chiaramente come oggi non
vi sia più spazio non soltanto per
il cristianesimo, ma per tutti i valori che in questi duemila anni hanno
concorso alla formazione e allo sviluppo
della civiltà europea. Per quanto forse i credenti cristiani
non se ne rendano del tutto conto, non può sussistere
una religione fondata su un Dio «Padre» laddove la figura del padre ha perso
qualsiasi rilevanza e autorità.
Come abbiamo ormai più volte detto, le religioni sono
specchio e proiezione di ciò che pensano e che desiderano i popoli. L'immagine
di un Dio-Padre è ormai priva di senso.
Non può sussistere una religione fondata sull'importanza del «Figlio»
laddove la procreazione è considerata
un fatto personale e gravoso e la società provvede gratuitamente ai
numerosissimi aborti confermando così che
vuole la propria morte. D'altra parte il figlio è ormai inutile per il padre in
quanto non gli serve più a garantirne
la sopravvivenza. Non serve né per l'al di là né per il di
qua. Le dinastie, le successioni, le eredità sono state quasi del tutto abolite,
oppure vengono significativamente
caricate di tasse. Nessun genitore conta sui figli per la
propria vecchiaia. Alla vita nell'aldilà è ormai quasi impossibile credere e di
fatto gli uomini in Europa preferiscono non pensarci.
La dichiarazione di «morte cerebrale», i trapianti d'organi hanno tolto
concretamente e simbolicamente ogni
trascendenza alla morte, di cui il cadavere, fino a questa
orrida decisione, sembrava racchiudere il mistero; per
non parlare di ciò che il corpo era (o meglio «è», visto
che il dogma non è stato abolito) nella teologia cristiana
con la fede nella resurrezione dei corpi, inclusa nel Credo, alla quale però
nessuno evidentemente pensa più.
Sembra quasi impossibile che vi sia stato un tempo (oggi appare lontanissimo
ma in realtà si tratta soltanto di pochi anni fa) in cui gli uomini si
toglievano il cappello davanti a un morto a onorarne, appunto, la sacralità.
Tutto questo è stato voluto dallo Stato e dalla Chiesa in modo
ossessivo, come se la realizzazione dei trapianti d'organi
costituisse il centro del loro potere e dei loro desideri.
Ma il trapianto d'organi significa l'annullamento delle specifiche
individualità (oltre che il consenso e la legittimazione dell'istinto sempre
presente nell'uomo di sopravvivere uccidendo, mangiando l'altro); significa
avvicinarsi concretamente a quella nuova forma di uguaglianza che, invece di
affermare l'esistenza del singolo,
afferma la sua non-forma, la sua mancanza d'identità, la
sua integrazione nell'identico. Passaggio indispensabile
per giungere ad annullare la differenza posta dalla natura con il Dna maschile e
femminile, la differenza di genere, e affermare la «normalità»
dell'omosessualità.
Non si può trarne che una sola conclusione: hanno
voluto che l'omosessualità vincesse su tutto e su tutti. Ma
il primato dell'omosessualità non sarebbe stato proponibile fin quando fosse
stato in vigore non soltanto il primato del «padre», dei legami di parentela,
dei legami di sangue, ma anche e soprattutto l'assoluta «differenza»
del genere maschile e femminile, ossia la differenza per
antonomasia. L'interscambiabilità dei corpi l'ha annientata. Dunque: nessun
«Genere», nessuna «Paternità», nessun «Figlio», nessuna «Famiglia», nessuna
«Società», nessun «Futuro».
Naturalmente questo significa che si vuole la fine non
soltanto del cristianesimo, ma di tutta la civiltà e della
società europea, la fine dei «bianchi». L'omosessualità è
strumentale soltanto a questa fine e il suo primato sparirà insieme ai bianchissima.
...
I popoli che si impadroniranno dell Europa non produrranno né filosofia, né arte, né musica come afferma chiarmente la religione che hanno adottato.
Fanno molti figli però: la natura segue le proprie leggi, quelle della sopravvivenza della specie e quindi li privilegia.
Nesuno piange la fine dei bianchi , sebbene siano tanti a piangere la finestra dei panda (....) perché questa fine é stata ossessivamente voluta e perseguita dai governanti e da tutti i leader europei.
Può darsi sia stata l'America a volere che l'Europa le assomigliasse, con tanti popoli diversi, un solo sistema economico e tanta orgogliosissima omosessualità.
(...)
Dell' Europa rimarrà solo il nome del territorio geografico. Il resto sarà Africa.