martedì 16 luglio 2013

La battaglia per i minori adesso ha il sostegno del parlamento europeo

Maffioletti: la mia battaglia per i minori adesso ha il sostegno del parlamento europeo - Associazione di Associazioni Nazionali per la tutela dei Minori




Maffioletti: la mia battaglia per i minori adesso ha il sostegno del parlamento europeo
Gabriella Maffioletti

16/07/2013 - 15.15

Trento. Alcuni anni fa ho iniziato ad occuparmi di minori sottratti alle famiglie. Ho scoperto fin da subito un universo nascosto fatto di abusi nei confronti dei minori e delle famiglie che sulla base di valutazioni e perizie soggettive di natura psichiatrica e psicologica venivano strappati all’affetto dei loro cari in nome di una “presunta” tutela, che in realtà era un vero e proprio sequestro di stato e un crimine verso il minore.
Questi abusi erano comprensibilmente incredibili, ed è stato molto difficile far capire alla gente che proprio qui, nel cuore della civile Europa, le stesse autorità dedite alla tutela dei bambini stavano commettendo degli abusi nei loro confronti. All’incredulità della gente si sono aggiunti gli attacchi, anche personali, da parte di alcune forze reazionarie, spinte da conflitti di interesse sia economici che politici, che hanno ostacolato e ostacolano strenuamente ogni tentativo di riforma. Infatti in Trentino si spendono più di 10 milioni di euro per i minori fuori dalla loro famiglia, e come ha ben riassunto l’onorevole Antonio Guidi nel convegno dell’anno scorso al Palazzo della Regione di Trento: “Vale più un chilo di bambino che un chilo di eroina”. Questo sistema da lavoro e reddito a molte persone ed è un bacino di voti per quei politici miopi che tutelano il sistema sulla pelle dei minori.
Incurante delle difficoltà, ho continuato per il bene dei bambini. Pian piano, non solo per merito mio, altre voci si sono levate per smascherare questo scandalo. Ricordo in particolar modo l’onorevole Antonio Guidi, la dottoressa Vincenza Palmieri, l’avvocato Francesco Miraglia e il giudice Francesco Morcavallo. E recentemente anche il Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza mi ha dato ragione sostenendol’attuale inesistenza di politiche minorili, in un contesto di default del sistema di welfare. Altro che “va tutto bene”, “ho piena fiducia nei miei operatori” e “dobbiamo solo migliorare” come afferma l’Assessore Violetta Plotegher. Contro la riforma dei servizi sociali si era persino scomodato l’ex Presidente della Provincia Autonoma di Trento Lorenzo Dellai che aveva voluto “confermare la piena fiducia verso la rete dei servizi pubblici” definendo le polemiche “spesso immotivate o sopra le righe”. Ma come appare chiaro dall’interrogazione del Vice Presidente del parlamento Europeo, qui si tratta di un sistema allo sbando. E l’interrogazione in questione mi conforta sia perché finalmente sta squarciando il velo di “omertà” su questi abusi, sia perché sostiene e conferma quanto da me sostenuto da anni.
Infatti il Vice Presidente del Parlamento Europeo denuncia che: “Numerosi rapporti e articoli di stampa italiani hanno messo in luce un eccessivo affidamento di bambini in casa-famiglia o all'affidamento familiare, tanto da far parlare di «allontanamenti facili». Spesso i minori vengono allontanati per motivi generici (ad esempio conflittualità, problemi economici, inidoneità genitoriale, problemi abitativi), senza una reale possibilità di ascoltare i genitori e i minori coinvolti, sulla sola base dei rapporti dei servizi sociali e delle perizie psichiatriche o psicologiche.” Fa piacere vedere che le mie affermazioni sono avvalorate a livello europeo, non tanto per orgoglio personale ma per la possibilità concreta di cambiare il sistema e aiutare i bambini.
Ma non è tutto, l’interrogazione dell’onorevole Angelillo descrive una situazione allarmante ma purtroppo reale: “Allo stato attuale, non si riescono a distinguere gli allontanamenti realmente necessari da quelli che, con un'adeguata politica di sostegno alle famiglie in grado di prevenire e risolvere i disagi, potrebbero essere evitati, soprattutto senza allontanare i bambini dai propri genitori.
Mi auguro che la Commissione Europea faccia finalmente chiarezza e che i tanti bambini attualmente ingiustamente “detenuti” nelle case famiglia e nelle famiglie affidatarie possano ritornare a casa e riabbracciare i loro cari.
 
Gabriella Maffioletti Delegata Nazionale ADIANTUM

mercoledì 10 luglio 2013

Affido condiviso: a rimetterci sono i papà


La legge 54 sull’affidamento condiviso dei figli nelle separazioni e nei divorzi ha da poco superato il settimo anno ed è oggetto di profondo dibattito.

Fonte:http://www.famigliacristiana.it/articolo/fascione-l-afido-condiviso.aspx

E’ stata quasi totalmente sdoganata dai tribunali italiani, che la applicano massivamente. Ma secondo alcuni autorevoli critici è stata anche purtroppo svuotata degli obiettivi per cui era nata: la legge 54 sull’affidamento condiviso dei figli nelle separazioni e nei divorzi ha da poco superato il settimo anno ed è oggetto di profondo dibattito.
Sul tavolo c’è, prima di tutto, la domanda se sia veramente uscita dalla carta. Insomma, l’affidamento condiviso ha davvero realizzato quel principio di bigenitorialità secondo cui, pur nella separazione, padri e madri devono mantenere pari diritti e pari doveri nella cura e nell’educazione dei figli?

Secondo le ultime rilevazioni Istat (anno 2010) in Italia le separazioni sono state 88.191 e i divorzi 54.160. Il fenomeno è in crescita costante: se nel 1995 c’erano 158 separazioni e 80 divorzi ogni 1000 matrimoni, ora si registrano 307 separazioni e 182 divorzi. Quasi il 70% delle separazioni e quasi il 60% dei divorzi coinvolge coppie con figli.
E qui arriviamo all’applicazione, quasi a tappeto, dell’affidamento condiviso: è stato previsto nell’89,8% delle separazioni e nel 73,8% dei divorzi.

I figli coinvolti nel fenomeno non sono pochi: si tratta complessivamente di 153.331 tra bambini, adolescenti e maggiorenni. Di questi, 88.972 sono minorenni e sono dunque stati affidati secondo il regime della legge 54 o, per casi ormai residuali, in affidamento esclusivo.

Fino al 2005, l’affidamento esclusivo dei figli minori alla madre è stata la situazione ampiamente prevalente. C’era una previsione di “calendari di visita” riservati ai padri, che si trovavano però estromessi dalla vita quotidiana dei piccoli nonché dalle decisioni che li riguardavano, dal momento che la potestà genitoriale spettava in modo esclusivo al genitore affidatario.

Con l’entrata in vigore della Legge 54/2006 l’ottica è stata ribaltata: secondo la nuova legge entrambi i genitori ex-coniugi conservano la potestà genitoriale e devono provvedere al sostentamento economico dei figli in misura proporzionale al reddito. E’ previsto un assegno al coniuge economicamente più debole (ma attualmente è concesso solo nel 20% dei casi), cumulabile a quello per i figli, che viene previsto nel 73% delle separazioni. Entrambi i tipi di contributo ammontano in media a poco più di 400 euro, 480 per i figli.

Se questo è il quadro formale, gli aspetti sostanziali legati alla corretta applicazione della legge 54 mostrano tutte le difficoltà culturali, organizzative, sociali, che essa ha incontrato in questi anni.

Una delle maggiori critiche alla legge riguarda la sostanziale “fatica” del sistema, della magistratura in particolare, ad abbracciare pienamente l’innovazione e a evitare di ripetere i vecchi schemi, come l’indicazione della madre “collocataria principale” e la stesura di un calendario minimo di visita che replica le vecchie dinamiche dell’affidamento esclusivo.

Secondo altri – e opposti - punti di vista, l’affidamento condiviso rischia invece di aumentare l’esasperazione dei rapporti e creerebbe un corto circuito nella gestione delle rispettive spese sostenute per i figli (il testo normativo infatti ha eliminato il riferimento a un assegno di mantenimento fisso).

In questi ultimi due anni è stato discusso al Senato un disegno di legge di riforma della legge 54, il ddl 957, ispirato al lavoro dell’associazione Crescere Insieme, presieduta dal professor Marino Maglietta, che è stato l’ispiratore dell’affido condiviso. Il testo era volto a dare maggior sostanza agli obiettivi dell’attuale norma, favorendo ad esempio la situazione di un doppio domicilio per i figli, per vivere la quotidianità con entrambi i genitori. Finita la Legislatura, l’iter della proposta si è interrotto e un nuovo testo dovrà essere ripresentato.

Tra questi molteplici chiaroscuri, l’affidamento condiviso resta oggi una grande opportunità, per i genitori, di dimostrare ai figli l’amore e il senso di responsabilità che li tiene legati, a prescindere dalla vicenda della separazione.


                                                                                               Benedetta Verrini

L’affido condiviso? E’ rimasto sulla carta. Quella grande rivoluzione, rappresentata dall’affermazione del principio di bigenitorialità come valore da difendere in tutti i casi di separazione, non è ancora riuscita a realizzare il cambiamento sperato. La prassi giurisprudenziale ha trovato gli escamotage per mantenere gran parte delle separazioni in una condizione da pre-riforma. Marino Maglietta, presidente dell’associazione Crescere Insieme, docente universitario e ispiratore della legge 54 del 2006, stila un severo bilancio dei primi anni di applicazione dell’affidamento condiviso.

«E’ stata adottata una - neanche troppo sottile - modifica lessicale», spiega. «Non si parla più di genitore affidatario ma di genitore collocatario. Si tratta ancora, in prevalenza, della madre, che trascorre con i figli la gran parte del tempo, resta nella casa familiare e si fa carico di tutte le decisioni e i compiti di cura. Con questa impostazione, va da sé che la stragrande maggioranza delle sentenze ripescano il vecchio diritto di visita del padre e dispongano un assegno di mantenimento per i figli, che nella ratio della legge doveva restare residuale ed esclusivamente perequativo».

Cosa è successo? «E’ successo che la magistratura si è opposta all’applicazione della legge», sottolinea Maglietta. «Un po’ per fattori culturali, un po’ per difficoltà a ribaltare prassi ormai consolidate, il sistema ha respinto la portata innovativa dell’affido condiviso. Certamente, per applicarlo nel modo giusto, garantendo il pieno coinvolgimento dei padri e delle madri nella vita dei figli, è necessario entrare in ciascun caso, approfondirlo, sforzarsi di sollevare gli occhi dai moduli pre-stampati che azzerano la specificità di ogni storia familiare».

Non a caso, osserva Maglietta, gli unici veri affidamenti condivisi i genitori sono costretti a pretenderli e a farseli da soli, con l’assistenza di mediatori. Ma quanta buona volontà, quanta fiducia reciproca, quanta consapevolezza e corretta informazione servono per arrivare a questo traguardo? In questo senso, il promotore dell’affidamento condiviso non è tenero nemmeno con la categoria degli avvocati che, a suo avviso, «non ha apprezzato il fatto che la legge 54 andasse a ridurre i contenziosi, disinnescando lo scenario vincitori-vinti».

«Per questo motivo, dopo aver a lungo monitorato la situazione, abbiamo ispirato la proposta di legge 957 in discussione in Senato, il cui iter è stato interrotto dalla fine della Legislatura. Continueremo a lavorare perché possa essere riproposta, e nel frattempo anche aggiornata», dice. «L’ipotesi legata alla riforma della legge 54 è quella di “riscriverne” alcuni passaggi in modo che la sua applicazione diventi assolutamente ineludibile».

L’idea di fondo è quella di ribadire la pariteticità delle responsabilità e dei doveri di cura dei genitori, «pariteticità che non significa una divisione al 50 per cento dei tempi», sottolinea Maglietta, chiarendo una volta per tutte un aspetto particolarmente dibattuto della proposta. E di fronte allo scalpore che ha suscitato l’idea del “doppio domicilio”, il professore ricorda che la bigenitorialità si sostanzia nella quotidianità con i figli, nella possibilità che “casa” sia l’appartamento del papà così come quello della mamma.

Il corollario di questa impostazione è il superamento di tutte le rigidità legate ai tempi di visita e all’assegno di mantenimento. «Se anche il padre è presente nella vita quotidiana dei ragazzi, non ha senso impostare un rigido calendario di visita e non ha senso dibattere sull’ammontare di un contributo fisso. Con il “vecchio” assegno, infatti, i padri liquidavano anche tutti gli obblighi di cura che finivano sulle spalle delle ex mogli. Ora la gran parte delle mamme sarebbe davvero sollevata di fronte alla possibilità di contare soprattutto sul tempo dei padri, più che sul loro denaro».

                                                                                             Benedetta Verrini

«Una nuova e doppia realtà è inevitabile per il figlio di una coppia che si separa, così come all’inizio sono da mettere in conto i capricci e i piccoli opportunismi di ogni giorno. Ciò che va invece curato da subito è la qualità della relazione, la sintonia tra ex coniugi su ruoli e compiti educativi». Lo sostiene con chiarezza Fulvio Scaparro, psicoterapeuta e fondatore dell’associazione milanese GeA, Genitori ancora, che da oltre 25 anni promuove la cultura della genitorialità oltre la separazione e il divorzio.

«E’ importante che questa dimensione continui attraverso la relazione tra madre e padre e non a livello individuale. Per un figlio di separati infatti il dolore più grande non è spostarsi da una casa all’altra ma passare attraverso messaggi contrastanti, spesso bellicosi senza contare che a volte il bambino stesso diventa messaggero di rabbie e ostilità».

Difficile però dialogare con equilibrio e coerenza sul terreno quasi sempre aspro di una separazione. «Ma passato il periodo della tempesta deve sopraggiungere la capacità di distinguere il fallimento matrimoniale dal progetto genitoriale. Anzi, lo stesso matrimonio non sarà stato vissuto invano se i figli potranno continuare a contare su mamme e papà capaci di crescerli in armonia.  Proprio nelle difficoltà i “buoni” genitori si dimostrano tali».

Per questo Scaparro invita i genitori che affrontano una separazione a farsi aiutare, avvalendosi dei servizi di mediazione familiare e ancora prima a formarsi. «Esistono corsi di preparazione sulla genitorialità, responsabilità comune e irreversibile, così irreversibile che andrebbe trasmessa chiaramente anche nei corsi pre-matrimoniali per ricordare sempre che si può smettere di essere coppia nella passione e negli affetti ma non si finisce mai di essere genitori».

                                                                                                   Paola Molteni

Nel dibattito su una possibile riforma della legge 54/2006 l’Aiaf - Associazione Italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori ha preso una posizione netta, già nel 2011, per ribadire che non vi sono reali necessità di modifica.

Quello che serve, piuttosto, per far decollare il principio di bigenitorialità, sarebbe «un’equa ripartizione dei compiti domestici e di cura dei figli, nel momento della convivenza come nella fase di separazione della coppia genitoriale; un più efficace intervento culturale sulle responsabilità familiari e genitoriali e un concreto sostegno alle famiglie; servono interventi di tipo psicologico e relazionale a sostegno della genitorialità, soprattutto nei casi di conflittualità tra i genitori, e una fattiva politica di ampliamento dei servizi sul territorio». Così aveva scritto, in un intervento lucido e appassionato, la compianta Milena Pini, che ha guidato per anni l’Aiaf e che è recentemente scomparsa.

In sintonia con il suo pensiero, gli avvocati aderenti all’associazione guardano con preoccupazione a interventi che possano irrigidire, o dettagliare all’estremo, i principi fissati dalla legge sull’affidamento condiviso.

«Il concetto della condivisione non può essere ridotto a una quasi “scientifica” separazione al 50% del tempo trascorso con padre e madre. E’ necessario elevarlo a un altro piano, quello educativo, rassicurando i bambini che la mamma e il papà sono coinvolti nella loro vita e sono d’accordo sulle scelte che li riguardano, dalla scuola agli sport, passando per l’educazione e gli orari», spiega Luisella Fanni, vicepresidente Aiaf.
«L’ipotesi di imporre un doppio domicilio, contenuta nell’ultima proposta di riforma della legge 54, mi pare davvero di difficile realizzazione, perché dipende dal livello di conflittualità della coppia ma anche dall’età e dalle abitudini dei figli. Non mi pare giusto che, soprattutto quando sono piccoli, abbiano confusione su dove devono stare e su quale sia la loro casa. Gradualmente potranno capire che dove c’è un genitore che li ama e si prende cura di loro, lì c’è una loro casa».

L’avvocato Fanni cita casi in cui gli ex coniugi sono riusciti a collaborare e a trovare soluzioni molto equilibrate, «ma serve un grande lavoro da parte degli avvocati per far capire, ad esempio, a certi padri che fanno mancare il loro sostegno economico, che i figli devono essere mantenuti; e a certe madri che i bambini non sono una proprietà e non esiste una competenza esclusiva nell’accudimento, in cui bisogna coinvolgere anche i padri, quelli che già lo facevano e quelli che devono imparare a farlo».

Nelle separazioni è passato il mito della vittoria a tutti i costi? «Per gli avvocati Aiaf sicuramente sì. Siamo consapevoli che la miglior vittoria, il più delle volte, è quella in cui si trova un punto di mediazione, in cui si fa capire - anche alla coppia più conflittuale - che i figli hanno il diritto di mantenere le relazioni con entrambi e con i loro familiari. Qui non ci sono vittorie o sconfitte, c’è solo l’importanza di rispettare i propri doveri, oltre a reclamare diritti».

La grande spinta culturale che serve alla legge 54 per poter decollare coinvolge l’intero sistema, avverte l’avvocatessa. Giudici, avvocati, ma anche mediatori e psicologi e tutte le competenze coinvolte nella separazione sono chiamati a consapevolizzare la coppia sui doveri nei confronti dei figli e sul senso profondo del continuare a essere genitori. «Dobbiamo chiederci cosa perdono quei bambini» dice, «e cosa possiamo fare per continuare a garantirglielo. E’ necessario altresì valutare quali erano le abitudini precedenti di quella famiglia e modellare il futuro dei bambini su di esse, chiamando i genitori a fare la loro parte perché, anche se non si è più mariti o mogli, si resta madri e padri per sempre».

                                                                                           Benedetta Verrini

Il diritto di un bambino di avere sempre accanto entrambi i genitori, anche dopo la loro separazione, resta sulla carta. Sì perché nonostante la Corte di Cassazione abbia stabilito che l’affido condiviso dei figli debba essere seguito di regola nei casi di separazione, l’istituto non viene effettivamente applicato.

Dati e considerazioni emergono da un recente convegno organizzato a Roma dal Centro studi sul diritto della famiglia e dei minori. In Italia il 49% delle coppie che si separano e il 33% di quelle che divorziano hanno almeno un figlio minore e le separazioni per cui è stato stabilito l’affidamento congiunto toccano l’89,8%. Disposizioni ben lontane della realtà però, come informa una ricerca del centro, secondo la quale per l’88% dei padri separati l’affido condiviso è inefficace (nel 92% dei casi il figlio viene affidato di fatto alla madre).

«E così il minore continua a trovarsi in mezzo a un genitore “collocatario” (di solito la madre) e a uno “marginalizzato” - commenta l’avvocato Matteo Santini, direttore del centro - squilibrio che secondo un nuovo disegno di legge si risolverebbe garantendo ai figli dei separati una doppia casa e un doppio domicilio». Ma non sempre duplicare case e organizzazione quotidiana significa garantire una reale condivisione.

Lo conferma Anna, 40 anni, mamma di due bambini di 13 e 9 anni, separata da più di un anno. «I nostri figli hanno la fortuna di poter contare su due case vicine, dividono la loro settimana tra me e il papà e stiamo attenti a non far mancare loro niente. Non riusciamo però a comunicare sulle loro emozioni e sui bisogni educativi e abbiamo mantenuto le abitudini di prima: io sono quella severa, con lui si divertono però non fanno mai i compiti! Con il risultato che, così “sdoppiati”, anche se mi sembrano sereni diventano sempre più insofferenti alle regole e opportunisti».

                                                                                                 Paola Molteni

L’affido condiviso? Il suo riconoscimento legislativo e la sua diffusione nella prassi delle separazioni italiane sono un fatto molto positivo, che ha consentito di riportare i padri sulla scena educativa e affettiva nella relazione con i figli. «Ma un coinvolgimento significativo non significa, necessariamente, una suddivisione al 50% di tutte le responsabilità organizzative e genitoriali. Ogni separazione è una storia a sé. Se l’affido condiviso deve trasformarsi in una lotta per avere tutto doppio, diventa una follia». Costanza Marzotto è psicologa, mediatrice familiare, direttore del Master biennale in Mediazione familiare e comunitaria all’Università Cattolica e membro dell’équipe del Servizio di Psicologia Clinica per la coppia e la famiglia che da anni ha istituito anche i Gruppi di parola per i figli dei genitori separati (www.unicatt.it/serviziocoppiafamiglia).
Rispetto alle dinamiche e alla riuscita dell’affido condiviso in Italia ha una visione estremamente lucida, che tiene conto anche del panorama internazionale in cui questa esperienza ha già una lunga e importante storia da raccontare.

Nell’ultima legislatura si è discusso di una proposta per incentivare ulteriormente l’affido condiviso, facendo sì che i figli dei separati abbiano davvero due domicili, due abitazioni, doppi luoghi degli interessi e degli affetti. Cosa ne pensa?

«Da un lato, penso che ci troviamo in una fase in cui l’esperienza dell’affido condiviso è ancora fortemente rivendicata, soprattutto dai padri, dunque si pretende il 50% di tutto per essere certi di essere coinvolti nella vita dei figli. Ed è vero che attualmente il genitore “collocatario” ha una posizione “dominante”, mentre l’altro, in una posizione più accessoria, finisce per diventare maggiormente rivendicativo soprattutto sul fronte economico, disposto per esempio a pagare solo per le spese sostenute quando il figlio è con lui. Ma questo non è il cuore del problema. E qual è, allora? Il problema è che i genitori devono essere aiutati a chiedersi quale fosse, durante il matrimonio, la loro delega di responsabilità genitoriale. Se un padre, per esempio, aveva già un ruolo periferico nella vita dei figli – e ciò avviene spesso, perché in Italia la struttura familiare vede ancora un genitore principale e uno accessorio – sarà molto difficile costruire “in laboratorio” un affido condiviso in cui all’improvviso diventa presente e condivide esattamente a metà ogni responsabilità educativa e familiare. Sappiamo che non è nemmeno questo che serve ai figli».

In che senso?

«Una recentissima ricerca anglosassone, condotta su un campione di 400 giovani adulti che hanno ripercorso la separazione dei genitori, ha fatto emergere il bisogno di un progetto il più possibile personalizzato, che tenga conto dell’età e dei bisogni del singolo bambino, basato più sulla qualità della relazione che sulla quantità. Facciamo un esempio: per la qualità della relazione, forse è più importante che un padre porti ogni settimana il proprio figlio a calcio o a nuoto, piuttosto che gli imponga di condividere, magari fin dalle prime settimane della separazione, una nuova casa in cui vive anche un nuovo partner magari con altri figli».

Dunque è meglio non imporre una divisione della vita familiare “con il bilancino”...

«Esattamente, soprattutto, lo ripeto, se prima della separazione il ruolo del padre era in qualche modo accessorio rispetto a quello della madre. Questo non significa escludere un genitore, ma incoraggiarlo e coinvolgerlo in una relazione davvero significativa. E’ quello che ci chiedono anche i ragazzi: vorrebbero percepire che il genitore collocatario incoraggia e sponsorizza il rapporto con l’altro genitore, invece accade spesso che gli incontri sono vissuti con estrema tensione e ansia di controllo».

Per questo si cercano strumenti giuridici per dare maggiore concretezza all’affido condiviso…

«Certo, abbiamo molte esperienze all’estero in questo senso: in Canada, per esempio, l’alternanza tra una casa e l’altra è una realtà. L’affido condiviso alternato, che impone al bambino di vivere a settimane alterne in due case diverse, è però al centro di un fortissimo ripensamento in Francia: sono stati i padri stessi a capire che il cambiamento continuo del setting alimentare, educativo, organizzativo era fonte di grande stress per i bambini e i ragazzi».

Allora, che fare?

«Accedere a una mediazione familiare precoce, avere un orientamento informativo preventivo per stabilire accordi significativi da proporre direttamente al giudice della separazione. In questi ultimi tempi ho visto funzionare molto bene una soluzione che prevede l’alternanza dei genitori nella casa familiare. E’ un’esperienza che prevede che entrambi abbiano una casa “di riserva”, magari quella dei nonni o di un nuovo partner, ma permette di lasciare invariate le abitudini dei bambini, di evitare la famosa “valigia in mano” e di introdurre i cambiamenti della separazione con estrema gradualità, condividendo davvero ogni situazione, spesa, difficoltà nella gestione domestica ed educativa».

                                                                                               Benedetta Verrini

Prendersi cura dei figli, seguire la loro crescita, decidere dove frequenteranno il liceo o da quale dentista possono andare. I papà di oggi vogliono essere presenti nelle vite dei loro bambini anche dopo un’eventuale separazione. La soluzione potrebbe essere l’affido congiunto. Che, però, nella pratica a volte funziona, altre no.

«Quando io ed Elena ci siamo lasciati, era terrorizzato al pensiero di non poter più a stare accanto a nostro figlio Marco», racconta Tiziano Buselli, 48 anni e un bambino di 8. «Ho ottenuto l’affido condiviso e ne sono entusiasta, perché passo parecchio tempo con Marco e mi sento un papà presente, attento». Secondo Tiziano, le piccole difficoltà pratiche si risolvono con il buon senso. «Per un bimbo può essere faticoso avere due case, dovere fare e disfare la valigia continuamente. Per questo io e la mia ex abbiamo diviso il guardaroba del piccolo tra i due appartamenti e abbiamo arredato le camerette con mobili simili, in modo che nostro figlio non si senta mai ospite in casa sua». Queste strategie hanno funzionato: il piccolo Marco è sereno. «Impegnarmi con la mia ex moglie per rendere più agile la vita del bambino ha migliorato anche il nostro rapporto, adesso siamo meno rancorosi e più complici nell’educazione del piccolo».

Non per tutti l’affido condiviso rappresenta la scelta migliore. «Sono felice di potermi ancora occupare di mia figlia», racconta Antonio Pesce, 42 anni e una bimba di 10. «Però ho l’impressione che l’affido congiunto stressi un po’ troppo la mia piccola, che si ritrova ad avere due vite autonome e separate, una con me e una con la mamma. Purtroppo spesso i ragazzi subiscono l’affido condiviso, che rischia di privarli delle sicurezze di cui hanno bisogno. Sono arrivato al punto di pensare che, forse, in caso di separazione, affidare il bambino a un solo genitore, senza naturalmente escludere l’altro dalla vita del piccolo, è il male minore».

«L’affido condiviso potrebbe essere una grande opportunità per le coppie con figli che si separano» sostiene Paolo Cavallaro, 50 anni e due figli adolescenti. «Purtroppo, però, sono pochi i genitori separati che riescono a crescere insieme i bambini senza scontrarsi di continuo». Le amare parole di Paolo sono il frutto della sua esperienza. «Io e la mia ex moglie credevamo che l’affido condiviso sarebbe stato perfetto per noi, invece ci ha creato molti problemi. Per esempio, io credo che la mia ex mi estrometta da parecchie scelte familiari, mentre lei mi accusa di screditarla davanti ai nostri figli, minando la sua autorità. Ed entrambi ci rendiamo conto che, purtroppo, nonostante i nostri sforzi i ragazzi si sentono spaesati e soffrono».

                                                                                                          Erika Di Francesco

Separarsi è doloroso per tutti. E, se ci sono anche dei figli, diventa faticoso e difficile continuare a fare i genitori, senza escludere la mamma o il papà dell'educazione dei bambini. Molte madri ritengono che la soluzione sia l'affido condiviso.

«Io e Patrizio siamo stati amici per parecchi anni prima di innamorarci, sposarci e diventare i genitori di Viola», racconta Chiara Autelli, 39 anni e una figlia di 12. «Ed è stato proprio l'affetto che ci ha sempre uniti a permetterci, una volta finito l'amore, di restare due genitori presenti e uniti». L'esperienza di Chiara è positiva: Viola vive un po' dalla mamma e un po' dal papà ed è una ragazzina sorridente, sicura di sé. «Con il mio ex ci siamo spartiti i compiti», continua Chiara, «per esempio, io ho scelto la scuola per la piccola, mentre lui l'ha portata dal suo dentista di fiducia per l'apparecchio. Siamo in armonia».

Anche Serena Di Fazio, 47 anni e un bambino di 12, è entusiasta dell'affido condiviso: «All'inizio non è stato facile, perché il nostro Mattia era disorientato dalla nuova vita divisa tra me e il mio ex. Ma sono bastati pochi mesi per ritrovare un po' di equilibrio. Ed è capitato che fosse proprio il nostro bambino a proporci semplici soluzioni ai problemi pratici. Per esempio, qualche mese fa ci ha chiesto di comprargli due copie dei libri scolastici, perché gli capitava spesso di dimenticarli a casa di uno o dell'altra».

Per Elena Masini, 50 e una figlia di dieci, invece, l'affido condiviso è molto, troppo stressante: «Purtroppo io e il mio ex abbiamo pessimi rapporti e non è facile educare la nostra Elisa insieme». Elena si sforza di essere una madre serena, ma quando la bambina è con il papà è sempre tesa, preoccupata. «Vorrei davvero che la piccola avesse un bel rapporto con suo padre e mi rendo conto che dovrei essere io per prima a parlare bene di lui con Elisa. Purtroppo, non sempre ci riesco». Secondo Elena, vivere in due case è troppo faticoso per la sua bimba. «Credo che sarebbe molto meglio se Elisa vivesse nella casa in cui abitavamo tutti insieme e fossimo io e il mio ex ad alternarci accanto a lei».

                                                                                                   Erika Di Francesco

Uno studio pubblicato su Children & Society, su 184.496 bambini in 36 Paesi occidentali (Italia inclusa) ha dimostrato che i bambini che vivono con entrambi i genitori biologici riportano i più alti livelli di soddisfazione di vita rispetto ai bambini che vivono con un genitore single o con un genitore biologico e uno acquisito 

In Italia, purtroppo, l'81,9 % dei figli, dopo il divorzio, hanno un solo genitore con cui trascorrono la loro quotidianità e (di solito si tratta della madre) e solo il 18,9% ha la fortuna di continuare a vedere regolarmente entrambi i genitori. Questo succede anche quando è stato deciso l’"affidamento condiviso”

In tal modo si disconosce l'importante principio di bigenitorialità cioè il fatto che un bambino ha un legittimo diritto a mantenere un rapporto stabile con entrambi i genitori, qualunque sia la loro situazione di coppia.

Il pediatra Vittorio Vezzetti, autore del libro sulla giustizia minorile Nel nome dei figli, ha esaminato, raccolto, riassunto e integrato le più importanti ricerche scientifiche internazionali con validazione statistica relative all’importanza dell’affidamento condiviso.

Le conclusioni, pubblicate in un articolo pubblicato sulla Rivista Scientifica della Società di Pediatria Preventiva e Sociale, considerano gli effetti benefici della bigenitorialità «anche se questo comporta la soluzione del doppio domicilio per i figli di coppie separate».

Mentre  Piercarlo Salari, anch'esso pediatra prtesso il consultorio Familiare Milano e Componente SIPPS haor sottolineato che «La custodia condivisa migliora lo status psichico e fisico dei figli  come dimostrano i risultati congiunti di numerose e affidabili ricerche scientifiche, il coinvolgimento di entrambi i genitori nella crescita del figlio migliora lo sviluppo cognitivo, riduce i problemi di carattere psicologico, riduce l’insorgenza di problemi comportamentali nell’età adolescenziale».


                                                                                                                Orsola Vetri

martedì 9 luglio 2013

Femminismo e gender si incontrano

http://www.uomini3000.it/399.htm

Il testo che qui di seguito riportiamo veniva presentato, nel sito da cui è tratto, come una sintesi della presentazione dell'allora Cardinale Joseph Ratzinger al volume di Michel Schooyans: "Nuovo disordine mondiale", (Collana Problemi e dibattiti 48), Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 2000.
In data attuale (10 Marzo 2006) sembrano scomparsi sul sito gli originali riferimenti a Joseph Ratzinger (nel frattempo diventato Papa Benedetto XVI) come autore del documento in questione, nonché sono state tolte alcune parti originariamente presenti nel testo (nella fattispecie tutta la prima parte da "Globalizzazione e nuovo ordine mondiale" fino al paragrafo "In nome dell'interesse superiore" compreso - i motivi di tale rimozione ci sono del tutto ignoti).
Qui su U3000 viene riportato fedelmente l'intero, interessantissimo testo originale.


da:
http://www.internetsv.info/Global4.html

L'IDEOLOGIA FEMMINISTA

 







Globalizzazione e nuovo ordine mondiale


Un nuovo ordine mondiale?
Una vibrante denuncia quella del professor Michel Schooyans: il nuovo ordine mondiale è una grande trappola per ridurre il numero dei commensali alla tavola dell’umanità. Nel suo libro Nuovo disordine mondiale i nomi, i programmi, gli argomenti del mondo che verrà, senza piú poveri né malati: moriranno prima!


Fin dagli inizi dell’illuminismo, la fede nel progresso ha sempre messo da parte l’escatologia cristiana, finendo di fatto per sostituirla completamente. La promessa di felicità non è piú legata all’aldilà, ma a questo mondo. Nel XIX secolo, la fede nel progresso era ancora un generico ottimismo che si aspettava dalla marcia trionfale delle scienze un progressivo miglioramento della condizione del mondo e l’approssimarsi, sempre piú incalzante, di una specie di paradiso; nel XX secolo, questa stessa fede ha assunto una connotazione politica. Da una parte, ci sono stati i sistemi di orientamento marxista che promettevano all’uomo di raggiungere il regno desiderato tramite la politica proposta dalla loro ideologia: un tentativo che è fallito in maniera clamorosa.
Dall’altra, ci sono i tentativi di costruire il futuro attingendo, in maniera piú o meno profonda, alle fonti delle tradizioni liberali. Questi tentativi stanno assumendo una configurazione sempre piú definita, che va sotto il nome di "Nuovo ordine mondiale". Trovano espressione sempre piú evidente nell’ONU e nelle sue conferenze internazionali, in particolare quelle del Cairo e di Pechino, che, nelle loro proposte di vie per arrivare a condizioni di vita diverse, lasciano trasparire una vera e propria filosofia dell’uomo nuovo e del mondo nuovo. Una filosofia di questo tipo non ha piú la carica utopica che caratterizzava il sogno marxista; essa è al contrario molto realistica, in quanto fissa i limiti del benessere, ricercato a partire dai limiti dei mezzi disponibili per raggiungerlo e raccomanda, per esempio, senza per questo cercare di giustificarsi, di non preoccuparsi della cura di coloro che non sono piú produttivi o che non possono piú sperare in una determinata qualità della vita.
Questa filosofia, inoltre, non si aspetta piú che gli uomini, abituatisi oramai alla ricchezza e al benessere, siano pronti a fare i sacrifici necessari per raggiungere un benessere generale, bensí propone delle strategie per ridurre il numero dei commensali alla tavola dell’umanità, affinché non venga intaccata la pretesa felicità che taluni hanno raggiunto. La peculiarità di questa nuova antropologia, che dovrebbe costituire la base del Nuovo ordine mondiale, diventa palese soprattutto nell’immagine della donna, nell’ideologia del «Women’s empowerment», nata dalla conferenza di Pechino. Scopo di questa ideologia è l’autorealizzazione della donna: principali ostacoli che si frappongono tra lei e la sua autorealizzazione sono però la famiglia e la maternità.
Per questo, la donna deve essere liberata, in modo particolare, da ciò che la caratterizza, vale a dire dalla sua specificità femminile. Quest’ultima viene chiamata ad annullarsi di fronte ad una «gender equity and equality», di fronte ad un essere umano indistinto ed uniforme, nella vita del quale la sessualità non ha altro senso se non quello di una droga voluttuosa, di cui si può far uso senza alcun criterio. Nella paura della maternità che si è impadronita di una gran parte dei nostri contemporanei entra sicuramente in gioco anche qualcosa di ancor piú profondo: l’altro è sempre, in fin dei conti, un antagonista che ci priva di una parte di vita, una minaccia per il nostro io e per il nostro libero sviluppo. Al giorno d’oggi, non esiste piú una «filosofia dell’amore» bensí solamente una filosofia dell’egoismo.

Nuovo disordine mondiale
La legittimità della protesta antiglobalista
Il fatto che ognuno di noi possa arricchirsi semplicemente nel dono di se stesso, che possa ritrovarsi proprio a partire dall’altro e attraverso l’essere-per-l’altro, tutto ciò viene rifiutato come un’illusione idealista. È proprio in questo che l’uomo viene ingannato. In effetti, nel momento in cui gli viene sconsigliato di amare, gli viene sconsigliato, in ultima analisi, di essere uomo.
C’è qualcuno che sta progettando un sistema rigido e inattaccabile per governare lo sviluppo del mondo. Organismi internazionali dall’indiscutibile autorità (Organizzazione Mondiale della Sanità, Banca Mondiale, Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, UNICEF e altri) hanno messo a punto un nuovo paradigma che misura il valore delle persone in anni di aspettativa di vita, invalidità, morbilità al fine di valutare le priorità e mettere in atto, oppure no, i piani di aiuto in tutto il mondo. Applicando questi "nuovi criteri" si scopre che tutto diventa uno questione di costo-rischio-beneficio. Perciò, chi è povero e malato riceverà meno aiuti; chi è ricco e sano riceverà maggiori cure. Per questo motivo, a questo punto dello sviluppo della nuova immagine di un mondo nuovo, il cristiano - non solo lui, ma comunque lui prima di altri - ha il dovere di protestare e di denunciare coraggiosamente la “grande trappola” per i poveri del mondo e la nuova schiavitú al servizio degli imperativi della mondializzazione e della globalizzazione.

La concezione dei diritti dell’uomo che caratterizza l’epoca moderna, e che è cosí importante e cosí positiva sotto numerosi aspetti, risente sin dalla sua nascita del fatto di essere fondata unicamente sull’uomo e di conseguenza sulla sua capacità e volontà di far sí che questi diritti vengano universalmente riconosciuti. All’inizio, il riflesso della luminosa immagine cristiana dell’uomo ha protetto l’universalità dei diritti; ora, man mano che questa immagine viene meno, nascono nuovi interrogativi. Come possono essere rispettati e promossi i diritti dei piú poveri quando il nostro concetto di uomo si fonda cosí spesso, come dice l’autore, «sulla gelosia, l’angoscia, la paura e persino l’odio»? Come può un’ideologia lugubre, che raccomanda la sterilizzazione, l’aborto, la contraccezione sistematica e persino l’eutanasia come prezzo di un pansessualismo sfrenato, restituire agli uomini la gioia di vivere e la gioia di amare.

È a questo punto che deve emergere chiaramente ciò che di positivo il cristiano può offrire nella lotta per la storia futura. Non è infatti sufficiente che egli opponga l’escatologia all’ideologia che è alla base delle costruzioni «postmoderne» dell’avvenire. È ovvio che deve fare anche questo, e deve farlo in maniera risoluta: a questo riguardo, infatti, la voce dei cristiani si è fatta negli ultimi decenni sicuramente troppo debole e troppo timida. L’uomo, nella sua vita terrena, è «una canna al vento» che rimane priva di significato se distoglie lo sguardo dalla vita eterna. Lo stesso vale per la storia nel complesso. In questo senso, il richiamo alla vita eterna, se fatto in maniera corretta, non si presenta mai come una fuga.
Esso dà semplicemente all’esistenza terrena la sua responsabilità, la sua grandezza e la sua dignità. Tuttavia, queste ripercussioni sul «significato della vita terrena» devono essere articolate. È chiaro che la storia non deve mai essere semplicemente ridotta al silenzio: non è possibile, non è permesso ridurre al silenzio la libertà, è l’illusione delle utopie. Non si possono imporre al domani modelli di oggi, che domani saranno i modelli di ieri. È tuttavia necessario gettare le basi di un cammino verso il futuro, di un superamento comune delle nuove sfide lanciate dalla storia, sulla base di un contenuto concreto, politicamente realistico e realizzabile, all’idea, cosí spesso espressa dal Papa, di una «civiltà dell’amore».

Non dimenticare il passato
È triste constatare che il disprezzo della vita umana è una costante nella storia dell’umanità, anche recente.

La storia
La storia ci insegna che i casi di sterminio, di genocidio, d’infanticidio, di abbandono di bambini, ecc. sono per cosí dire ricorrenti nei secoli. Lo stesso Antico Testamento comprende racconti di massacri che ci lasciano sconcertati. L’origine di questi comportamenti è indubbiamente da ricercarsi nell’aggressività che cova nel cuore dell’uomo, cui va però aggiunta anche la tendenza a trovare un «capro espiatorio», vale a dire a scaricare sugli altri la responsabilità delle nostre disgrazie. Con l’avvento dell’industria sono nate nuove forme di sprezzo della vita umana. Leone XIII ha denunciato la mancanza di rispetto dei datori di lavoro nei confronti della vita degli operai, le condizioni di lavoro non sicure, le condizioni di vita insalubri e, soprattutto, la violenza delle strutture della società industriale. Questa violenza, ricorda Leone XIII, trova spiegazione nel fascino esercitato dal guadagno, che spinge a sfruttare al massimo i lavoratori.
Facendo eco alla Rerum novarum, numerosi testi pontifici successivi, in modo particolare Sollicitudo rei socialis e Centesimus annus, hanno dimostrato che queste critiche sono sempre attuali. Nel corso del XX secolo, il disprezzo della vita umana si è tradotto in regimi politici particolarmente efferati. Basti pensare al comunismo sovietico! Come dimenticare che proprio questo regime, prima nell’Unione Sovietica e poi in Cina, ha legalizzato l’aborto, presentando il controllo della popolazione come un’esigenza della pianificazione imperativa della produzione? E inoltre, come dimenticare che in nome della medesima ideologia popolazioni intere, in particolare contadine, sono state massacrate? E cosa dire del fascismo, che ha ridotto l’uomo ad un semplice «membro» anonimo nel «corpo» dello Stato? Come cancellare il ricordo del nazismo che, non contento di aver diffuso la sterilizzazione e l’eutanasia e dopo aver incoraggiato esperimenti medici crudeli, ha sterminato milioni di innocenti per motivazioni razziali, filosofiche o religiose? Il quasi totale black-out che ha avvolto il cinquantesimo anniversario del processo di Norimberga (1946) mette in evidenza l’imbarazzo nel quale la commemorazione di questo evento avrebbe gettato gli ambienti contrari alla vita.

Il passato recente
I bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki del 1945 e le «giustificazioni» addotte in seguito per tentare di scusarli, hanno contribuito a insinuare nell’opinione pubblica e in quella di taluni dirigenti l’idea che, nella guerra moderna, la distruzione in massa di popolazioni innocenti non debba porre particolari problemi morali. Il piú forte, per il solo fatto di disporre di mezzi di distruzione decisamente superiori a quelli degli altri, si sente giustificato ad utilizzarli in maniera smisurata e impudente. La guerra del Golfo (1991) ha confermato questo indurimento di posizioni. Il fatto che si siano registrate perdite umane relativamente basse sul fronte dei vincitori e invece abbastanza elevate sul fronte dei vinti, sia tra i militari sia tra i civili, è stato considerato non solo «normale», ma addirittura motivo di vanto. L’industria di morte non è mai stata cosí prospera come in questi tempi. Si rivaleggia in ingegnosità quando si tratta di preparare l’eliminazione di massa o addirittura lo sterminio del genere umano. Questa macabra ingegnosità riserva tuttavia delle sorprese: il costo della rimozione delle mine antiuomo sarebbe dieci volte superiore al costo della loro posa. La società moderna crede di aver chiuso i conti con il comunismo, il fascismo, il nazismo, ma non ha estirpato dalla nostra mentalità l’aspetto piú perverso di queste ideologie: l’ossessione della morte.
Di fatto, le ideologie di morte sono tornate ad essere attuali; non solo, tendono a diventare sempre piú sofisticate. Dopo la caduta del fascismo e del nazismo nel 1945 e nonostante l’implosione del comunismo sovietico, lo spettro della guerra totale incombe ancora sul mondo. Alla base delle relazioni internazionali c’è sempre l’idea che la guerra non è solo una questione militare; essa si combatte ovunque, con tutti i mezzi e in tutti i campi. Per questo motivo, pur continuando a produrre armamenti classici, la società contemporanea vede nascere nuove «indicazioni» ideologiche «che legittimano» i comportamenti che vanno contro la vita. Nel suo seno si moltiplicano i mezzi per sopprimere la vita o per impedirne il concepimento. I nuovi mezzi vengono messi a punto per la maggior parte in laboratori, per poi essere utilizzati in ambulatori, cliniche ed ospedali. I regimi totalitari contemporanei hanno fatto ricorso a validi metodi di condizionamento mentale degli individui e dei gruppi. Essi si sono frequentemente serviti della menzogna per ottimizzare gli effetti della violenza. Queste tecniche di lavaggio del cervello sono diventate sempre piú efficaci grazie, in modo particolare, alla complicità di taluni psichiatri. L’adozione di questi metodi ha spesso portato all’indebolimento o addirittura all’inibizione, sia nei singoli che nelle società, della capacità di giudicare in maniera personale e di decidere liberamente.

L’efficacia di questi metodi risulta evidente anche nel ruolo che assumono i media. Questi non hanno soltanto la facoltà di selezionare o di «giocare» con l’informazione; essi dispongono anche dei mezzi necessari per condizionare l’opinione pubblica inculcando nella testa di lettori ed ascoltatori menzogne che vengono recepite senza discernimento. È risaputo che i media, servendosi di questi metodi di condizionamento, hanno contribuito a far accettare a un’opinione pubblica troppo facilmente manipolabile pratiche che vanno contro la vita. Nei mass media, e persino nelle pubblicazioni scientifiche, vengono utilizzate tattiche per trarre in inganno l’opinione pubblica, condizionare i governanti, manipolare gli animi. La menzogna fa oramai parte degli “aiuti per decidere”.
All’origine di questo disprezzo per la vita troviamo infine, e lo diciamo con rammarico, il silenzio, la rinuncia a lottare, addirittura la connivenza di alcuni teologi e pastori. In occasione di campagne ostili alla vita, taluni sono cosí spaventati da reagire come se ciò che è in gioco li interessasse a mala pena. Altri si rifugiano in acrobazie casistiche o semantiche: le loro sottili ambiguità, però, oltre ad avallare pratiche immorali, creano confusione ed errore. Capita persino che certi gruppi confessionali rinuncino a insegnare parti intere della morale. Per questo, di fronte al disprezzo di cui la vita è attualmente oggetto, i leaders spirituali hanno una forte responsabilità, o per il loro silenzio, o per la loro complicità.

In nome dell’«interesse superiore»
Étienne De Greef (1898-1961), che fu professore di psichiatria all’università di Lovanio, scriveva:
«L’interesse superiore è sufficiente per bloccare qualsiasi reazione di simpatia nei confronti delle vittime piú innocenti e degne di pietà... La nozione di interesse superiore rende immediatamente insensibili le nostre coscienze, che presentano una resistenza minima a questa anestesia. È in nome della libertà, della giustizia e della morale e persino dell’amore del prossimo che viene commessa la maggior parte dei crimini. Sappiamo oggi che un popolo civilizzato può, senza per questo temere la benché minima rimostranza seria da parte di un’altra nazione civilizzata, terrorizzare, derubare e distruggere una minoranza etnica purché gli riesca non tanto di nascondere il fatto quanto di impedire che si sentano le grida o che si percepisca la disperazione delle vittime».
E aggiungeva:
«Hitler non ha fatto altro che estremizzare le teorie della lotta per la vita, la negazione del bene e del male, il ripudio di ogni legge morale. Perché e con quale diritto scandalizzarsi di questi concetti che venivano insegnati nella maggior parte delle università occidentali»?

La coalizione ideologica del «genere»
Le ragioni abitualmente invocate per «giustificare» le pratiche che mirano al controllo della vita umana sono da ricollegare alle due ideologie che piú hanno segnato il mondo contemporaneo, quella socialista e quella liberale. Oggigiorno, però, queste due ideologie sono oggetto di una duplice reinterpretazione, che si articola attorno a due temi: il «genere» e il «nuovo paradigma». [...].
 
La rivisitazione del socialismo e del liberalismo


Parecchi temi fondamentali delle correnti ostili alla vita sono presi a prestito dall’ideologia socialista. Tra questi troviamo l’idea di «umanità generica», mutuata da Feuerbach (1804-1872). Solo il «genere umano» ha veramente importanza; il singolo non è altro che una manifestazione momentanea del genere umano, destinata alla morte.
La vita degli uomini, ivi compreso l’aspetto corporeo, dovrà pertanto essere utile all’umanità generica ed essere organizzata in funzione delle necessità della collettività: solo in essa, infatti, l’uomo «sopravvive» dopo la morte. La società felice sarà caratterizzata da una pianificazione basata sulla conoscenza scientifica dei principi che governano la materia. Gli individui saranno gli ingranaggi, ora utili, ora nocivi, della macchina sociale; dovranno essere trattati di conseguenza. Questa ideologia comporta anche un sensualismo moderato solamente dagli imperativi derivanti dalla trascendenza dell’umanità generica. Gli uomini avranno diritto al massimo piacere individuale, purché questo sia compatibile con le esigenze della specie.
Anche Marx (1818-1883) ha influenzato le correnti ostili alla vita con la sua teoria della lotta di classe. Tra i proletari e i capitalisti, i deboli e i forti, i poveri e i ricchi, la lotta, anche violenta, è inevitabile. Alla tradizione marxista si ricollega anche la reinterpretazione dell’internazionalismo. Le identità nazionali, le peculiarità regionali devono scomparire affinché possa nascere il nuovo ordine mondiale. L’influenza di Marx è evidente anche nella reinterpretazione del messianismo, in virtú del quale spetta a una minoranza cosiddetta illuminata spiegare ai comuni mortali quello che devono pensare, volere e fare. Questa minoranza illuminata è l’erede del dispotismo illuminato del XVIII secolo; ed è oramai presente nelle tecnocrazie internazionali che definiscono i programmi di cui si è parlato. Si rifà invece a Lenin (1870-1924) l’idea di una burocrazia che, debitamente inquadrata da tecnocrati illuminati, crea una rete di organizzazioni internazionali a servizio della pianificazione della vita umana.
 

 
Malthus e l’ideologia liberale
Le correnti favorevoli al controllo della vita umana devono la loro concezione utilitaristica dell’uomo anche all’ideologia liberale.Tuttavia, malgrado una parentela di fondo, questa concezione dell’uomo viene presentata in maniera diversa dall’ideologia socialista, pur arrivando a conclusioni vicine a quelle di quest’ultima. Gli argomenti addotti per «giustificare» il controllo della vita umana rivelano la costante influenza di taluni temi classici dell’ideologia liberale, che, nell’attuale riformulazione, risale, perlomeno su un punto preciso, a Platone. È infatti risaputo che il grande filosofo raccomandava uno stretto controllo quantitativo e qualitativo della popolazione. La Città doveva limitare i suoi abitanti e condurre una politica eugenetica. Malthus (1766-1834) è l’erede di questa antica tradizione, nell’ambito della quale rappresenta il piú grande teorico della sicurezza alimentare. Secondo Malthus, tra la crescita aritmetica delle risorse alimentari e la crescita geometrica della popolazione si crea necessariamente uno scarto. Si profila la penuria alimentare e, con essa, lo spettro della fame. Non bisogna quindi interferire nei meccanismi della Natura, che opera una saggia selezione «naturale». Bisogna invece lasciar agire gli elementi frenanti grazie ai quali coloro che, essendo meno dotati, sono poveri, vengono eliminati. Nell’interesse loro e della collettività, sarà inoltre necessario consigliare loro il matrimonio in tarda età e la continenza. 
Malthus contribuisce pertanto a consolidare la visione essenzialmente utilitaristica dell’uomo, che verrà sviluppata da Bentham (1748-1832). Il povero è il vinto della libera concorrenza: è in piú perché non produce o non produce abbastanza e ciononostante pretende di consumare. Il malthusianesimo si va diversificando, male correnti che si accaniscono contro la vita umana fanno sempre del suo nocciolo duro un punto di riferimento fondamentale. Da attribuire all’eredità malthusiana è anche l’idea che la povertà, come del resto la ricchezza, è un fenomeno «naturale» che non deve creare complessi né sensi di colpa: è solamente un fenomeno determinato dalle diverse attitudini degli individui.
 

Eugenetica e neomalthusianesimo

Sulla scia di Malthus, altri studiosi arriveranno a dire che la selezione dovrà essere artificiale e che saranno i medici a doversene occupare. Galton (1822-1911) sarà uno dei teorici piú influenti dell’eugenetica. Tra gli individui, esistono differenze innate considerevoli, determinate dal patrimonio genetico di ognuno. È di conseguenza inutile sperare che l’ambiente, e in modo particolare l’educazione, possano migliorare le prestazioni dei meno adatti. Per questo è necessario favorire la trasmissione della vita tra i partner piú dotati e contenerla nel caso dei meno dotati. Programmi di eugenetica di ispirazione galtoniana vengono attualmente realizzati in vari paesi. Applicati con discrezione a Singapore, sono stati per cosí dire ufficializzati nella Cina popolare, dove le coppie possono procreare seguendo delle limitazioni, che variano a seconda della «qualità» concessa ai genitori dalla burocrazia biocratica.
Tuttavia, l’odierna ideologia liberale deve molto anche alla tradizione neomalthusiana. L’uomo ha il diritto e persino il dovere di esercitare il suo controllo sulla trasmissione della vita; a questa tesi malthusiana, però, il neomalthusianesimo associa la tesi del diritto al piacere individuale. Quest’ultima trova la sua origine nella morale edonistica, vale a dire la morale che fa del piacere - in questo caso sessuale il bene supremo dell’uomo. Nelle loro manifestazioni piú radicali, le correnti femministe applicheranno alla donna la tesi neomalthusiana del diritto al piacere individuale, arrivando ad affermare che tutto ciò che può procurare questo piacere è permesso, mentre tutto ciò che lo ostacola deve essere eliminato.
È quindi evidente che la corrente neomalthusiana contribuisce fortemente a diffondere l’idea secondo la quale nell’unione coniugale è opportuno separare il piú possibile il piacere dalla procreazione. Il neomalthusianesimo induce in questo modo all’amore libero e quindi alla distruzione della famiglia. Secondo questa corrente, infatti, il matrimonio comporta un impegno di fedeltà che ipoteca la libertà totale di cui ciascun partner deve poter godere in qualunque momento e in qualunque situazione.
 

II connubio di socialismo e liberalismo

Oggi come oggi, le ideologie socialista e liberale e i fondamenti filosofici sui quali si basano continuano a fornire i principali argomenti invocati per «giustificare» il disprezzo della vita umana. Le due ideologie in questione sono addirittura coalizzate a questo scopo, il che spiega la violenza, senza precedenti nella storia, con cui ci si accanisce contro la vita umana. Altri argomenti vengono forniti da alcuni temi ricorrenti quali quello dell’internazionalismo, della lotta di classe e cosí via. Il tema dell’internazionalismo, per esempio, ricompare sotto la voce «nuovo ordine mondiale», che porta a mettere in dubbio il diritto delle nazioni di disporre di se stesse e quindi della loro sovranità. Questa «mondializzazione», o «globalizzazione», va di pari passo con una nuova concezione del mercato.
Quest’ultimo deve essere mondiale; tutto deve essergli subordinato, la politica come la produzione. In una simile concezione di mercato, gli individui si vedono attribuire una semplice funzione. La lotta di classe si ritrova sotto forma di opposizione tra forti e deboli, produttivi e non produttivi, sani e malati, ricchi e poveri, Nord e Sud. La penuria, inizialmente presentata come riguardante le risorse alimentari, viene ora generalizzata a tutte le risorse e all’ambiente in generale. È chiaro che una simile lettura della situazione conduce inevitabilmente a una ridefinizione, a vantaggio di pochi privilegiati, del diritto allo spazio vitale. Il messianismo professato da una minoranza «illuminata» viene rivendicato da una nuova casta di funzionari internazionali, i quali, a proposito di problemi di vitale importanza, assicurano di possedere un sapere inaccessibile ai piú.
L’idea neomalthusiana del diritto degli individui al piacere viene ampliata, diffusa ed esportata nei paesi poveri, dove serve innanzitutto a nascondere le motivazioni inconfessabili che spingono i ricchi a voler controllare la vita dei poveri. Il tema dell’umanità generica, che aveva già dimostrato la sua efficacia nei sistemi razzisti e segregazionisti, ricompare nell’ambito delle nuove etiche riguardanti la specie umana che celano una connotazione razzista. Le tecniche biomediche attualmente disponibili permettono, a loro volta, la programmazione di un’eugenetica scientifica. Bisogna evitare che il «sangue impuro» contamini il «sangue nobile» di cui necessita la società umana. Gli individui «inferiori» devono essere esclusi dalla trasmissione della vita e né gli scienziati, né i poteri pubblici devono - viene assicurato - sottrarsi alla responsabilità che spetta loro in questo campo. Particolarmente preoccupante è l’uso perverso che può essere fatto della biologia piú all’avanguardia, che esplora il genoma umano. Abusando delle sue risorse, l’eugenetica potrà diffondersi e, con essa, anche nuovi criteri di segregazione, presentati all’occorrenza sotto il nome di «qualità della vita».

L’ideologia del «genere»
 
L’influenza congiunta della tradizione socialista e di quella liberale è particolarmente evidente nelle due principali ideologie contrarie alla vita in voga al giorno d’oggi: l’ideologia del «genere» (in inglese gender) e l’ideologia del «nuovo paradigma». Pur dovendo molto al liberalismo neomalthusiano, l’ideologia del «genere» è fortemente influenzata da Marx ed Engels. Oggigiorno essa permea la gran parte delle organizzazioni internazionali che si occupano del controllo della vita. Per quanto riguarda l’ideologia del «nuovo paradigma», anch’essa è influenzata dalla tradizione socialista. Essa rimane tuttavia piú vicina alla tradizione liberale piú pura quando presenta la salute come un prodotto a servizio del mercato.
 

Il ripristino della lotta di classe

Per Engels, l’oppressione della donna è la massima espressione della lotta di classe nella sua forma originaria. All’epoca del comunismo tribale era predominante un sistema matriarcale secondo il quale i figli appartenevano al clan della madre ed ereditavano da quest’ultima. Gli uomini, responsabili dell’aumento della produttività, accumularono beni di valore sempre crescente e fecero dei loro figli i loro eredi: nacque cosí il sistema patriarcale. Le madri furono private dei loro diritti sui figli: è la prima forma di alienazione. La nuova condizione della donna, derivata da questa situazione, rappresenta il prototipo dell’opposizione di classe. «La prima opposizione di classe che si manifesta nella storia coincide con lo sviluppo dell’antagonismo tra l’uomo e la donna nell’ambito del legame coniugale», scrive Engels. La donna è la «prima serva dell’uomo», assicura la tradizione, il che si traduce in maternità ripetute, lavori domestici, emarginazione sociale. Il padre di famiglia vuole dare in eredità ai figli la sua proprietà privata.
Secondo Marx ed Engels, il comunismo porterà a un superamento di questa situazione: l’uomo e la donna saranno uguali nel senso che entrambi avranno lo stesso status di lavoratori all’interno della società di cui saranno una funzione. Piú precisamente, la donna, liberata da tutte le «schiavitú» familiari, materne e domestiche potrà contribuire alla produzione industriale. Se sarà necessario, gli impegni domestici e familiari che la donna portava a termine nella sfera privata della famiglia saranno innalzati al rango di «produzione» nella e per la società. I figli, legittimi o naturali, beneficeranno dell’educazione data dalla società.
Ne deriva, per la donna, un duplice «beneficio»: da un lato potrà fornire il suo contributo all’industria in qualità di lavoratrice, dall’altro potrà cambiare partner sessuali a suo piacimento, in quanto la società sarà pronta a farsi carico dell’eventuale prole nata da queste varie relazioni. n sintesi, la prima divisione del lavoro è quella che si origina tra l’uomo e la donna a causa dei figli. L’antagonismo tra i due è il primo antagonismo che appare nella storia; esso si manifesta nel matrimonio monogamico e nell’oppressione esercitata dall’uomo sulla donna. Il comunismo risolverà questa situazione permettendo alla donna di essere operaia, facendo scomparire il matrimonio monogamico, distruggendo la famiglia tradizionale, introducendo l’amore totalmente libero, enfatizzando l’uguaglianza tra l’uomo e la donna a tal punto da considerarli intercambiabili.
A partire dalla rivoluzione d’ottobre del 1917, in Unione Sovietica verranno adottati numerosi provvedimenti in questo senso: essi figureranno nel codice del 1926. L’ideologia del genere, pur sottolineando il riferimento al liberalismo, conduce in realtà a questo progetto. La famiglia deve scomparire, dal momento che essa non è luogo di complementarità bensí di opposizione. Con lei scompariranno le relazioni di parentela, di maternità, di paternità. L’uomo sarà ridotto alla condizione di individuo, momento effimero sia dello Stato che del mercato.
 

L’influenza dello strutturalismo
 
Una corrente femminista molto attiva, che sviluppa l’ideologia del gender, riprende queste tematiche presenti in Marx ed Engels. Essa distingue tra le differenze sessuali biologiche (sesso) da una parte e i ruoli attribuiti dalla società all’uomo e alla donna (genere, gender) dall’altra. Secondo questa corrente, le differenze tra i «generi» umani non sono naturali, bensí compaiono nel corso della storia e vengono create dalla società: sono quindi culturali.
In questo modo di pensare si avverte chiaramente l’influenza dello strutturalismo francese. Secondo gli ideologi del gender non è piú possibile parlare di una natura umana. D’ora innanzi l’uomo è oggetto di scienza; è una struttura, un insieme di «elementi tali che la modifica d’uno qualunque di loro comporta la modifica di tutti gli altri». In quanto struttura, l’uomo evolve e questa evoluzione permette d’altronde di risalire alle radici profonde dell’uomo stesso: alle forme di vita animale e vegetale e, in ultima analisi, alla materia. Da qui il rinnovato interesse degli ideologi del genere per l’evoluzionismo di Darwin e per l’etologia, che si propone di spiegare i comportamenti umani alla luce di quelli animali.
Ora, le società umane, in costante evoluzione, si danno delle regole di funzionamento, dei codici di comunicazione, delle regole di condotta che vanno generalmente sotto il nome di cultura. La cultura, con le regole che comporta, è quindi in costante evoluzione. L’uomo stesso è inserito in una struttura globale, economica e sociale, che spetta a lui rivoluzionare. Deve modificare le regole di comportamento ereditate da strutture anteriori, necessariamente arcaiche. Come vedremo, queste tesi strutturaliste aumenteranno l’influenza di Marx ed Engels sulle ideologie del genere.
 

Disfare e rifare la società
Stando a queste ideologie, infatti, è necessario eliminare le differenze tra uomini e donne e spetta alla classe oppressa, vale a dire quella delle donne, fare questa rivoluzione. Secondo l’ideologia marxista, sono i proletari ad avere un ruolo capitale nella rivoluzione. Secondo l’ideologia del genere, questo ruolo spetta invece alle donne. Nella nuova dialettica d’ispirazione marxista, le donne sostituiranno i proletari: si riapproprieranno del loro corpo; controlleranno la loro fecondità e, per far ciò, utilizzeranno le nuove tecniche biomediche. Lo scopo finale cui si tende non è semplicemente l’eliminazione dei privilegi dell’uomo: è l’abolizione totale di ogni distinzione tra le classi. È chiaro, però, che questo scopo si potrà considerare raggiunto solo quando verrà abolita qualsiasi differenza tra uomini e donne. Termini come «matrimonio», «famiglia», «madre» devo no di conseguenza essere eliminati, poiché non corrispondono a nessuna delle realtà ammesse da questa ideologia; anzi, richiamano alla mente situazioni storiche superate che l’ideologia deve denunciare e distruggere.
L’ideologia del genere unisce quindi temi dell’ideologia socialista nella formulazione data da Marx e temi dell’ideologia liberale nella formulazione neomalthusiana. Prende l’avvio da una rilettura della lotta di classe, rilettura che porta a conseguenze disastrose. La prima di queste conseguenze richiama certe correnti gnostiche: dal momento che le differenze esistenti tra uomo e donna devono essere abolite, la mascolinità o la femminilità, che sono proprie di ciascun essere umano, non hanno piú nulla da esprimere riguardo alla persona. Per l’individuo, il corpo non è altro che uno strumento per provare piaceri di varia natura: eterosessualità, omosessualità, per non parlare del piacere solitario, e poi ancora contraccezione, aborto, ecc.; è cosí che l’ideologia del genere si riallaccia all’ideologia neomalthusiana di Margaret Sanger (1883-1966).
Questa ideologia porta anche al disfacimento della famiglia. Secondo questo modo di pensare, infatti, né l’eterosessualità né la procreazione ad essa legata possono pretendere di essere «naturali»: sono dei prodotti culturali «biologizzati». È la società che ha inventato i ruoli maschile e femminile e ciò che ne consegue: la famiglia. Per questo, bisogna instaurare una cultura che neghi una qualsiasi importanza alle differenze tra uomo e donna. Con l’eliminazione di queste differenze scompariranno il matrimonio, la maternità e la famiglia biologica stabile.
Questa cultura ammetterà tutti i tipi di pratica sessuale e, allo stesso tempo, respingerà qualsiasi forma di repressione sessuale. Questa ideologia incide anche sulla società, esigendo dai poteri pubblici la ristrutturazione della società stessa secondo l’ideologia del genere. Bisogna eliminare il genere, perché appartenere a un genere significa aggrapparsi a un momento sorpassato della storia, quello delle disuguaglianze e dell’oppressione. Successivamente, bisogna ricostruire la società secondo l’ideologia del genere, abolendo i ruoli che la vecchia società attribuiva rispettivamente all’uomo e alla donna.
È chiaro che ci troviamo in presenza di un progetto che si propone di sovvertire dei modelli culturali. Non si tratta semplicemente di aggiungere nuovi «diritti» e, in modo particolare, «nuovi diritti della donna». Si tratta di qualcosa di molto piú profondo: far sí che venga accettata una reinterpretazione radicalmente diversa dei diritti già esistenti.


Il genere all’ONU
 
L’ideologia del genere, sviluppatasi nell’ambito di circoli femministi radicali e divulgata tramite una miriade di organizzazioni non governative, è stata accolta con compiacimento nelle assemblee internazionali, in modo particolare al Cairo (1994) e a Pechino (1995). L’ONU stessa, e molte delle sue agenzie, si è screditata accogliendola in maniera acritica e dandole il suo appoggio. Dopo l’ONU, anche l’Unione europea l’ha fatta propria. L’influenza che l’ideologia del genere esercita a livello di queste istituzioni risulta chiara se si pensa al concetto di famiglia. Questo è stato svuotato del suo significato tradizionale, tanto da venire utilizzato indifferentemente per indicare unioni eterosessuali, omosessuali, situazioni monoparentali, ecc.
Forti sono le pressioni esercitate affinché le nuove accezioni del termine vengano incluse nel diritto. A piú di cinquant’anni dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948-1998) si cerca ancora, con vari mezzi, di adulterarne il contenuto, se non addirittura di proporne una nuova redazione. È chiaro che nell’ambito della discussione su ciò che è innato e ciò che è acquisito, su ciò che viene dalla natura e ciò che viene dalla cultura, l’ideologia del genere nega qualsiasi possibilità di esistenza all’innato e al naturale. Tra il maschile e il femminile non c’è soluzione di continuità e, tra i due, il punto mediano o equidistante è rappresentato dall’ermafroditismo. L’idea stessa di differenze naturali fa orrore, per cui queste differenze devono essere abolite. Ne risulta che non c’è nulla di piú antifemminista delle femministe radicali che vogliono eliminare la specificità femminile e ridurre ogni comportamento a dei ruoli i cui attori sarebbero intercambiabili allo stesso modo degli ingranaggi che - seguendo la metafora leninista - permettono il funzionamento di una macchina.

Gli ideologi del genere negano le evidenze piú lampanti, quali l’attrazione reciproca tra l’uomo e la donna o il fatto che la maternità umana, lungi dall’essere riducibile a una funzione biologica, rientra nella vocazione della donna e contribuisce a costruire la sua identità. C’è comunque da rilevare che la stragrande maggioranza degli uomini e delle donne non si sentono complessati per il fatto di essere diversi. pur non ignorando il peso della storia. Per di piú, è inaccettabile che l’ONU e le sue agenzie, divenute complici attive di una dittatura ideologica, si siano arrogate la competenza filosofica e morale, nonché l’autorità politica, di parteggiare per una minoranza di femministe radicali di dubbia rappresentatività contro la maggioranza delle persone di buon senso.

Segnali dal futuro





 Fonte: http://capitandaddy.wordpress.com/2013/07/08/segnali-dal-futuro-orwell-2063/

Donna prendi questo impegno:
la guerra è pace
la schiavitù è libertà
l’ignoranza è potenza
Tutto ebbe inizio durante il TG della sera, un attimo prima l’anchorman stava ammiccando all’inviata di turno e un attimo dopo si sparava nella fronte mandando la propria materia cerebrale ad imbrattare gli schermi alle sue spalle nello studio televisivo.
Lesse la notizia, come tutte le altre senza dare modo agli spettatori di prepararsi a ciò che stava per succedere.
La Legge A-Men  era stata approvata dal parlamento e ora era in vigore a tutti gli effetti.
Nessuno si sarebbe aspettato un gesto così eclatante eppure il sangue, il buco in fronte, le orbite all’indietro erano davanti a tutti e tutti andarono nel panico: gli uomini lo vissero con un sentimento di rassegnazione, come un destino scelto da qualcun altro; le donne, invece, rimarcarono dal canto loro un’esigenza ormai irrinunciabile: nonostante tutto ciò che era stato fatto fino a quel momento, non era ancora abbastanza; decisero di insistere per estirpare la violenza blu.
Infatti, già da diverso tempo, la guerra di genere era stata fomentata dalla propaganda social-femminista che era riuscita ad inculcare nei cervelli del popolo rosa l’odio e l’allarmistica sensazione di panico dell’emergenza incipiente.
Il Ministero istituì una task-force dedicata alle politiche di contrasto della violenza di genere e del femminicidio che nel giro di breve tempo definì le linee guida per il nostro paese partendo dalla messa in opera della Convenzione di Istanbul approvata a tempi di record in tutti i paesi dell’Unione.
Ai maschi adulti fu imposto un corso di aggiornamento mentale e chi non lo avesse superato avrebbe dovuto trasferirsi nelle aree dedicate, mentre gli abili a vivere nelle zone miste avrebbero dovuto sostenere dei richiami ogni due anni per accertare la correttezza psicoattitudinale adatta alla convivenza multi genere.
Tuttavia la tendenza maschile a concentrarsi e a fare gruppo sollevò forti perplessità e i dubbi si trasformarono presto in emergenza sociale, avviarono, così, le geolocalizzazioni e nel corso di un paio di mesi vennero distribuiti i braccialetti gps a tutti i maschi e nei casi in cui vennero evidenziate zone sovrappopolate di soggetti blu, vennero eseguite le deportazioni di genere.
Gli adulti maschi abili alla convivenza vennero dichiarati UOMA in modo tale da definirne i diritti e le tutele pur essendo considerati di genere inferiore.
Con la vigente legge si abolì l’uso del maschile per definire gruppi omogenei di persone, utilizzando il genere femminile in quanto la maggioranza della popolazione mondiale fu di norma di tale genere.
Una volta c’erano le razze, dalla legge A-Men ci furono i generi.
Per quanto riguarda i rapporti di coppia furono da subito aboliti tutti i contratti prematrimoniali in essere; furono istituite le “note operative di coppia”: la casa divenne di proprietà esclusiva della donna, la cura e la gestione della prole fu affidata esclusivamente alla madre, venne disposto per i figli maschi  fino all’età di 11 anni la permanenza presso Centri di Educazione Rosa.
In via transitoria e fino al completamento della rieducazione globale maschile, furono istituiti per le giovani donne già dall’età prescolare dei corsi di apprendimento delle tecniche di difesa personale contro il maschio violento.
Venne abolita la scuola mista con il passaggio definitivo al modello dell’educazione omogenea di genere (single sex education): per le femmine questo tipo di educazione garantì l’innalzamento sociale e la capacità di gestione e governo della nuova nazione, mentre ai maschi fu riservato l’insegnamento dei lavori socialmente utili.
Con la vigente legge si abbandonò l’uso del maschile per definire gruppi omogenei di persone, utilizzando il genere femminile in quanto la maggioranza della popolazione mondiale era di tale genere.
Nel corso di pochi mesi il numero dei suicidi aumentò del 40%; gruppi di uomini cercarono di resistere riunendosi segretamente in associazioni di tutela di genere, tuttavia dopo aver analizzato la grave situazione denigratoria in atto decisero che l’unica soluzione accettabile sarebbe stata la morte garantendo tra l’altro  alle donne il raggiungimento di uno degli obbiettivi che si erano prefissate ovvero un immediato calo della popolazione mondiale maschile.
trattasi di scritto di fantasia del genere distopico dispotico