Negli anni ’90 ci fu il boom della new economy
e di concetti correlati quali la mobilità e flessibilità del lavoro. In
tutto il mondo i governi colsero l’occasione per riformare gli
ordinamenti giuslavoristici ereditati dal passato industriale,
adattandoli alla nuova eterogenea e cangiante realtà economica ancorata
ai servizi. I mitici “Uffici di collocamento” passarono quindi la mano
ai più fragili “Centri per l’impiego” pubblici, ma soprattutto si diede
una delega in bianco alle “Agenzie di lavoro”, imprese private che
commerciavano in risorse umane, assecondando un processo verso cui non
mancarono fortissime resistenze.
Fu per superare proprio quelle resistenze
che sul piano culturale le élite globali e nazionali spinsero e spesero
grandi risorse per affermare il ruolo di questi soggetti privati, che
finirono per proliferare. Legioni di giovani registrarono i loro
Curriculum Vitae e sperarono in una chiamata. Molti di loro, va detto,
trovarono la via per un inserimento nel mondo del lavoro, che magari
dura ancora oggi, ma non è l’efficacia di questi soggetti a interessare.
Piuttosto è il fatto che in quel periodo le città erano invase di
pubblicità delle diverse agenzie di lavoro, che pullulavano a piano
strada in una proporzione pari oggi ai negozi dei cinesi. La spinta
istituzionale alla nouvelle vague del mercato del lavoro,
testimoniata dai pochi vincoli imposti per aprire un’agenzia di lavoro,
era sotto gli occhi di tutti. Oggi di quella pletora rimane un 10%.
Imbattersi casualmente in un’agenzia di lavoro è quasi impossibile.
Bisogna cercarle, e il loro numero è nettamente calato.
Più
o meno nello stesso periodo l’ingresso dell’Italia a pieno titolo
nell’UE comportava, tra le prime conseguenze, la rinuncia della
sovranità sulle politiche agricole. Il pallino, su quella tematica,
passava a Bruxelles, dove gli interessi francesi la facevano da padrone.
Risultato: l’agricoltura italiana conosce una crisi pesantissima. Nasce
così, per sostenere un settore in crisi, l’idea dell’agriturismo.
Le aziende agricole messe in ginocchio dalle politiche comunitarie
potevano trasformare la loro attività di produzione mescolandola a
un’attività di servizi per il turismo. Anche in questo caso vincoli
pochi, pubblicità tanta, spinta culturale fortissima, e fu il boom.
Per un lungo periodo gli agriturismi
sorsero come funghi. In ogni regione, anche nelle più piccole, se ne
contavano tantissimi, c’era oggettivamente l’imbarazzo della scelta.
Chiunque fosse in possesso di un appezzamento, un paio di caprette
annoiate, una mucca smunta, qualche gallina spelacchiata e un orticello
poteva spacciarsi per agriturismo. Sulle pagine dei giornali, autorevoli
e meno autorevoli, si sprecavano i redazionali con personaggi noti e
meno noti che testimoniavano la loro favolosa vacanza in agriturismo.
Oggi quel mercato è ancora prospero, per fortuna, ma è dovuto passare,
dopo un po’, sotto le forche caudine sia della crisi, sia di un eccesso
di offerta rispetto alla domanda, sia di una legislazione più sensata e
restrittiva per accedere all’apertura di questo tipo di impresa.
Quelli sopra riportati sono solo due esempi di “bolle speculative”, volute e create dal sistema per spingere
sul piano culturale ed economico realtà commerciali specifiche, per
imporre una narrazione diffusa e, alla fine dei conti, per mutare una
mentalità. Dietro vi è in minima parte una strategia economica
complessiva, ma soprattutto un calcolo per orientare l’opinione pubblica
verso determinate direzioni, avvantaggiando agglomerati di interessi a
loro volta collegati con interessi politici. Il tutto con i media a
pieno supporto. L’esito, in tutti i casi, è sempre un boom di ciò che
viene imposto, sia che si tratti di agenzie di lavoro, di agriturismi o
di altro. Che si configura come bolla speculativa perché, non avendo uno
sbocco reale o non rispondendo a una domanda reale, di fatto non ha
fondamento. E’ un boom “drogato”, sostenuto solo da strategie e
investimenti politici e mediatici.
Meccanismi che si ripetono
periodicamente, coinvolgendo di volta in volta settori diversi, e che
seguono uno schema più o meno sempre uguale: battage per imporre
all’opinione pubblica un’emergenza o la necessità di un’evoluzione (il
più delle volte presunte quando non inesistenti), risposta all’emergenza
con l’individuazione e pubblicizzazione ossessiva di soggetti
teoricamente capaci di risolvere l’emergenza, libertà d’azione e assenza
di vincoli per questi soggetti in modo che proliferino senza freni.
Quando la “bolla” così creata esaurisce i suoi compiti, consolidandosi
(come nel caso degli agriturismi) o sfruttando al massimo le opportunità
(come le agenzie di lavoro), il passaggio successivo è quello di dare
regole più stringenti, che consentono alla bolla di sgonfiarsi
gradualmente, invece di esplodere. Un altro esempio calzante è
l’emergenza ecologica del risparmio energetico immobiliare, risolta con
l’obbligo di un’inutile certificazione a carico di chi vende casa, che
ha fatto e sta facendo la fortuna di un gran numero di geometri, senza
che il problema del risparmio energetico venga risolto.
Se
si usa la chiave di lettura della bolla speculativa, si riesce oggi a
dare una spiegazione all’isteria dilagante relativa alle violenze di
genere (intese naturalmente solo come “contro le donne”), con tanto di
supporto di statistiche pubbliche e ufficiali piegate a scopi ideologici
e propagandistici, e un esercito di media impegnati come non mai a
manipolare l’informazione. La “bolla” oggi è imporre la necessità di un
numero imprecisato di nuove imprese che vadano sotto la specie di
“centri antiviolenza” o “case rifugio” o similari, con tutto l’indotto
occupazionale che esse innescano. Anche grazie alla pressoché totale
assenza di regolamentazione (come da schema usuale) di requisiti di
legge. Si impone dunque un’emergenza che non c’è, o non c’è nelle
proporzioni con cui viene rappresentata, e si dà come risposta la
distribuzione a pioggia di denaro pubblico a soggetti pressoché privi di
ogni regolamentazione. Che però non trattano forza lavoro, non
commerciano servizi turistici, ma si occupano di casi umani spesso in
situazioni gravissime.
Questa volta la bolla speculativa si
macchia quindi di un cinismo atroce, che fa proliferare un business
ingiustificato, a danno di chi davvero avrebbe bisogno di un sostegno (e
centri davvero specializzati sarebbero una manna in questo senso) e di
chi finisce incastrato in meccanismi distorti, capaci di rovinare
un’intera esistenza. Come un tempo si trovava un’agenzia di lavoro in
ogni via, o un agriturismo ogni tre chilometri in campagna, oggi c’è
l’imbarazzo della scelta sui centri antiviolenza. Che però vivono di
contributi pubblici, con un bassissimo accesso di utenza reale (e un
altissimo accesso di utenza fittizia). Le statistiche sulla creazione di
nuove imprese migliorano, così come quelle sull’occupazione, voti e
consensi elettorali fluiscono liberamente, lobby e holding collegate
prosperano. E fra qualche tempo, quando questo doping esaurirà la sua
spinta, per fare l’operatore di un centro antiviolenza serviranno
requisiti specifici, così come aprirne uno laddove già ce ne siano
molti. Tutto insomma sarà riportato alla giusta proporzione. Ma a che
prezzo, intanto?
Un
prezzo alto, molto alto, pagato essenzialmente da chi avrebbe bisogno
davvero di un supporto professionale, e nell’inflazione dilagante non lo
trova, o lo trova nella mera spinta a sporgere una denuncia purchessia,
e da chi oggi si trova suo malgrado a sostenere una narrazione diffusa
distorta a supporto di queste attività, facendosi 42 giorni ai domiciliari per un bacio denunciato falsamente come molestia.
Fonte: https://stalkersaraitu.com/2017/11/30/i-centri-antiviolenza-sono-lennesima-bolla-speculativa/
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