FOnte: http://www.libertiamo.it/2013/05/14/ma-sul-femminicidio-si-sta-costruendo-una-campagna-misandrica/
- Ad ogni crimine violento compiuto da un immigrato c’è
sempre chi prova a giocare la carta etnica, la carta della paura e della
colpevolizzazione del diverso. È successo anche in questi
giorni, dopo lo stupro a Vicenza di una ragazza ad opera di un ghanese e
dopo la follia omicidia di un altro ghanese a Milano.
La politica mainstream e soprattutto quella progressista e
di sinistra prendono sistematicamente le distanze da tali posizioni e
chiedono che i delitti si puniscano in quanto tali, ma si evitino
campagne allarmistiche e generalizzazioni razziste. Peccato, che negli
stessi giorni in cui, da sinistra, si chiede – giustamente – di
approcciare le problematiche della sicurezza in un’ottica rigorosamente “race blind”, al tempo stesso si lanci una campagna sul “femminicidio”, che “blind” non lo è per niente, ma che anzi è fortemente sessuata e generalizzante.
Si sostiene che la violenza non ha razza ed al tempo stesso si afferma che la violenza ha un sesso.
Così se è sbagliato sottolineare che è un immigrato ad avere ucciso un
italiano, è cosa buona e giusta rimarcare che è un uomo che ha ucciso
una donna. Nell’overdose mediatica di questi giorni sul “femminicidio”, sono davvero pochi i giornalisti che hanno osato mettere in discussione la vulgata e le sue basi filosofiche e morali. Tra questi Vittorio Feltri sul Giornale e Marcello Adriano Mazzola e Fabrizio Tonello sui blog del Fatto Quotidiano. Onore al merito.
Ma c’è davvero questa “emergenza femminicidio” in Italia? Andiamo con ordine e cominciamo ad esaminare qualche dato. Per prima cosa, partiamo dalle statistiche delle Nazioni Unite e notiamo che l’Italia è uno dei paesi più sicuri al mondo per le donne.
Lo è in termini assoluti, dato che tra le donne si registrano 0,5
vittime all’anno ogni 100.000 abitanti; e lo è in termini relativi
rispetto agli uomini, dato che solo il 23,9% delle vittime di omicidio è
di sesso femminile. Per fare un raffronto, le donne rappresentano il
49,6% delle vittime in Germania, il 49,1% delle vittime in Svizzera, il
34,3% in Francia ed il 33,9% nel Regno Unito.
È interessante notare come in generale sia infondata la correlazione tra uccisione di donne e cultura patriarcale.
Anzi in paesi normalmente considerati più femministi, la percentuale di
vittime di sesso femminile è alta (41,4% in Norvegia); al contrario è
più contenuta in paesi più tradizionalisti (il 18,1% in Irlanda ed
appena il 5% in Grecia). La sensazione – stando ai dati ONU – è che le
donne siano relativamente più al sicuro in paesi dove vige una divisione
dei ruoli tradizionale, mentre il rischio per le donne aumenti,
tendendo a livelli “maschili”, nella misura in cui la loro esposizione
sociale cresce, avvicinandosi a quella degli uomini.
I “teorici” del “femminicidio”, tuttavia, non prendono in considerazione il “rischio” per le donne in termini complessivi, ma si concentrano su un ambito specifico – quello dei moventi relazionali/passionali.
In questo ambito è vero che in Italia, come in altri paesi, si registra
una prevalenza numerica abbastanza significativa di vittime femminili.
Tuttavia, non esiste alcuna evidenza che il fenomeno del delitto passionale sia in crescita; anzi secondo i dati è persino un fenomeno tendenzialmente in diminuzione.
Peraltro la violenza con motivazioni passionali non è necessariamente compiuta da un uomo su una donna. Si registrano ogni anno vari casi di uomini uccisi dalla moglie o dalla compagna. Negli ultimi mesi è capitato anche di uomini sfregiati con l’acido (qui e qui)
da donne gelose o respinte. Cosa c’è di “diverso” o di “meno grave” in
questi episodi, rispetto agli scenari in cui è la donna ad essere
vittima? Se la risposta è “niente”, allora vuol dire che siamo d’accordo
sul perché sono radicalmente sbagliate campagne politiche che creino,
per lo stesso reato, vittime di serie A e vittime di serie B.
Le campagne contro il femminicidio, peraltro, partono da un
presupposto di eteronormatività, quando invece comportamenti violenti si
possono riscontrare anche in coppie gay e lesbiche. E allora, se una donna è uccisa da un’altra
in una relazione omosessuale, ciò si qualifica come un “femminicidio”?
Oppure l’uccisione di una persona di sesso femminile è meno grave se
anche la mano che uccide è quella di una donna?
Stando ad analisi criminologiche, limitandosi a considerare i soli
delitti motivati da ragioni relazionali-passionali – ed espungendo
quindi uccisioni riferibili ad altre cause (ragioni
economico-patrimoniali, eutanasia, etc.) – nel 2012 le donne
morte per mano di un uomo sarebbero 53 in più degli uomini morti per
mano di una donna. Ognuno di questi casi, indipendentemente dal sesso
della vittima, ci impone rispetto e riflessione; eppure si tratta di numeri che non suggeriscono affatto le dimensioni di un’emergenza sociale.
Certo, laddove sussista una precisa volontà, non è difficile
utilizzare sapientemente qualsiasi numero per costruire la percezione
dell’emergenza e peggio ancora per consegnare all’opinione pubblica un
nemico. Tuttavia, una politica civile e responsabile avrebbe il dovere
di ricondurre i fenomeni criminali alle loro effettive proporzioni,
senza assecondare o tanto meno incoraggiare isterie securitarie o
colpevolizzazioni collettive. Ce lo immaginiamo, del resto, se
tutti i giorni il TG1 dedicasse cinque minuti della sua programmazione
ad una campagna contro “l’italianicidio”, presentando ogni sera un nuovo
caso di cittadino italiano ucciso da un immigrato? Sarebbe
contenta forse la Lega, ma cosa ne penserebbero invece le tante anime
belle che sono in prima linea per denunciare l’emergenza “femminicidio”?
Se davvero si vuole combattere la violenza, si deve essere
solidali con tutte le vittime, uomini e donne, e comprendere che la
violenza non è un problema di genere, ma è un problema umano.
Se si dà un’aggettivazione di genere alla violenza è perché quello che
maggiormente interessa è spendere certi fatti in chiave politica per
perseguire obiettivi diversi. Questi obiettivi sono fondamentalmente di
due tipi.
Il primo è quello di alimentare l’infrastruttura istituzionale delle “pari opportunità”:
non un femminismo spontaneo e di base, ma un femminismo invecchiato e
burocratizzato che resiste nel “mercato delle idee” solo grazie ad una
distribuzione continua di fondi pubblici. Alla fine tutto il “tam tam”
di questi giorni si ricondurrà prosaicamente ad una sola cifra: gli 85
milioni di euro chiesti dal ddl 3390.
Il secondo – ancora più pericoloso – è quello di creare un
clima culturale che rafforzi il pregiudizio contro gli uomini nelle
cause di separazione e di affidamento figli, dando
automaticamente più peso a qualsiasi denuncia venga dalle donne, anche
quanto questa non sia sufficientemente circostanziata. Si tratta di un
rischio più che concreto che potrebbe vanificare gli sforzi che in
questi anni sono stati compiuti per cercare di addivenire a dei
procedimenti più equi.
La campagna sul “femminicidio” è, in definitiva, una campagna sessista,
che rinfocola gli stereotipi di genere – anziché combatterli – quelli
dell’uomo violento e prevaricatore e della donna innocente e naturaliter
buona. È dunque una campagna moralmente sbagliata e culturalmente
pericolosa, che deve essere pertanto confutata se ci stanno a cuore i
princìpi della neutralità della legge, del garantismo e di una vera
uguaglianza di genere.
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