ieri, 31 gennaio, ero nel Santuario di Maria Ausiliatice, ero uno dei tanti che partecipavano
alla funzione alle 18.30, ero uno delle migliaia di Torinesi che gremivano la
chiesa per la festa di San Giovanni Bosco. Non ti vedevo neanche, mi sono dovuto abbarbicare sul matroneo, come su
un sicomoro, per scorgerti. La tua omelia mi ha colpito.
Hai parlato dei mali che aggrediscono i giovani nel mondo,
dallo sfruttamento nel lavoro, al turismo sessuale, allo sfruttamento dei giovani
nella guerra. Hai usato la parola giovani,
e non minori, come piacerebbe a molti operatori
del diritto.
Hai parlato della tua esperienza con i giovani, in
particolare delle loro paure, della loro insicurezza, della incertezza per un futuro, per la famiglia.
Tutto bene, tutto vero, tutto noto. Sia i mali sia i
pericoli che i giovani d’oggi sperimentano, da te descritti, sono reali, sono
noti, sono veri, sono mondiali. E qui ci si potrebbe proferire in quelle
meravigliose frasi “basta leggere sui giornali per …” per riscuotere dall’uditorio
consensi, plausi. Ma tu non lo hai fatto, non hai parlato dei giornali, hai
parlato di don Bosco e del suo sistema
didattico e formativo.
Tu hai fatto riferimento alla ragione, alla religione, all’amorevolezza,
come assi del sistema educativo (1).
Il politically correct suggerirebbe che, in un’epoca di
forte crisi economica e lavorativa, si parlasse di crisi del lavoro, di
incertezza del futuro, della precarietà del futuro e della politica. Ma non sei
stato politically correct, sei stato più reale, e per questo non avrai il plauso
dei giornali.
C’è dell’altro, accanto alla realtà descritta dai giornali.
Una realtà che forse in parte spiega proprio i disagi dei giovani, da te citati
nell’omelia del 31 gennaio. Una realtà che non spiega i disagi alla scala mondiale, non tutti
i disagi, non completamente, non esaurientemente; però può dare una spiegazione
ai problemi alla scala locale, alla scala di Torino, alla scala di comunità
Basta essere “nel
mondo”, non necessariamente del mondo
per accorgersi che alla base delle paure e delle insicurezze di molti
giovani c’è, sempre di più, l’incertezza dell’amorevolezza della famiglia,
intesa come cellula della società o specchio dell’amore di Dio. Come ebbe a
dire mons Bagnasco : "La
gente non perdonerà la poca considerazione verso la famiglia così come
la conosciamo".
In particolare sembra che vi sia una costante ritrosia a
parlare delle famiglie separate civilmente e delle conseguenze che le
separazioni arrecano ai giovani. E ciò da molte parti, sia in politica, sia in
Chiesa.
Nonostante la legislazione italiana sulla separazione civile
sia stata osteggiata dalla mondo cristiano, ad oggi in Italia essa genera
effetti macroscopici ed innegabili: circa il 30% dei matrimoni , cioè quasi un
matrimonio su tre, sono sciolti civilmente.
Ciò signfica, don Chavez, che il 30% delle persone che ieri nel
santuario di Valdocco ti seguivano, il 30% dei giovani, il 30% degli adulti,
hanno esperienza di separazioni civili. In totale ci sono circa 4 milioni di
separati, chiaro effetto di una attiva secolarizzazione e laicizzazione dei credenti.
L’omissione, nei media, di qualunque riferimento a questa
incessante e mai sopita laicizzazione e secolarizzazione della famiglia e degli
affetti, equivale in parte ad autorizzare la scelleratezza delle istituzioni,
che, noncuranti della ragione, della religione, dell'amorevolezza ben si prestano alla odiosa prassi (2).
In Italia la prassi consolidata diventa diritto. Risalire la china, per i nostri giovani, ristabilire gli
affetti, avere un rapporto equilibrato con i
genitori è conseguentemente sempre più difficile. Soprattutto, ad oggi,
è loro impedito dalla prassi dei tribunali.
Altro che amorevolezza!
E la situazione Italiana è talmente lampante che la corte di
Strasburgo ha recentemente condannato il sistema giuridico italiano, che di
fatto impedisce o non è in grado di creare le migliori situazioni affinché i
genitori possano essere tali e i giovani possano godere dell’amorevolezza di entrambi
i genitori. La sentenza è del 30 gennaio, il giorno prima della festa di Don
Bosco! Qual meravigliosa coincidenza, Chavez, a sapere che prima della tua
omelia, altrove, un’altra persona parlava di giovani! A denunciare l’assenza
delle istituzioni non è stato un sacerdote, ma un giudice! Non in Italia, ma a
Strasburgo!
In Italia oggi le istituzione languono, in materia di
famiglia.
Ai tempi di Don Bosco, era l’industrializzazione e lo
sviluppo delle città a indurre i nostri figli a separarsi dalle famiglie, dai
genitori, con il rischio di trovarsi allo sbando nel mondo, a non avere
riferimenti economici, concreti, affettivi, spirituali. E le istituzioni torinesi
poco si curavano dei giovani, utilizzando, anziché gli straordinari strumenti
didattici e formativi di don Bosco, gli strumenti giudiziari, il carcere. E fu don Bosco a interessarsi di questi
giovani, anche contro l’atteggiamento omissivo e omertoso di altri sacerdoti
consacrati (e a cui, Chavez, tu ieri ha fatto riferimento durante l’omelia al
Santuario di Maria Ausiliatice), a raccogliere le loro paure, a dare speranza,
fiducia, con l’opera di aiuto concreto e spirituale che ben tutti conosciamo.
Allora era lo spirito dell’economia e del tempo, dell’ottocento
di Don Bosco, a generare le vittime. Erano le carceri minorili a far peggiorare
le situazioni. Era don Bosco che, vivendo nel mondo, raccoglieva le esigenze,
creando dei Santi.
Oggi è forse lo spirito del mondo, una sorta di inspiegabile
Zeitgeist, a dividere le famiglie, insieme alle indiscutibili
strumentalizzazioni da parte degli esperti del matrimonio, inclusi avvocati,
psicologi, psichiatri, neuropsichiatri, giudici. Ora come allora sono le
istituzioni a fallire, fornendo soluzioni stereotipate per i problemi dei
nostri giovani. Non più il carcere, ma comunque la privazione degli affetti.
Ieri sera, Chavez, tu durante l’omelia, hai rivolto una
domanda retorica:
Esistono ancora dei don Bosco? Esistono ancora dei Santi?
E hai dato una risposta affettuosa, piena di speranza, che
si sentiva venire dal cuore “SI, esistono ancora. Esistono ancora dei don Bosco
”.
I giovani di genitori separati aspettano questo nuovo Don
Bosco.
Aspettano di sentire, nelle omelie, un nuovo don Bosco, che
si rivolga ai giovani strumentalizzati nel lavoro, nel turismo sessuale,
nella guerra, ma anche ai giovani privati dell’amorevolezza dei genitori e
vittima delle istituzioni.
(1)
(2) tratta dall’omelia di don Chavez
Desidero accennare al terzo asse portante del Sistema Preventivo come l’ho vissuto. L’ho trasmesso ai miei salesiani come sacra eredità, quasi uno specifico distintivo: l’amorevolezza. Una parola che non ho inventato io, ma che ho fatto mia. Tipica del mio modo di educare.
Distintivo inconfondibile della mia pedagogia. In questa
parola racchiudevo uno stile d’amore che identificava l’educatore con i giovani
fino ad amare le stesse cose da essi amate, fino a trasformare il rapporto
educativo in uno stile di presenza filiale e fraterna, una presenza amica e
desiderata e l’ambiente educativo in una “famiglia”.
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