La Repubblica.it
del 29
aprile 2011 a
cura di Paolo Berizzi
In Italia sono ventimila
i minori ospiti di strutture. L'affare consiste nel prolungare i tempi di
permanenza. Solo un piccolo su cinque è affidato a coppie in attesa
Si chiamano Marinella,
Mirko, Daria, Luciano, Valentina. Altri hanno nomi di battesimo esotici o che
evocano genealogie di altri paesi europei (molto Est). Non si può nemmeno dire
che siano figli di un dio minore: sono figli di nessuno. Anzi: sono, diventano,
figli delle istituzioni. Dei servizi sociali. Dei
tribunali. Di una sentenza.
Entrano in una casa-famiglia da neonati e, sembra paradossale, a volte ci
restano fino a quando diventano maggiorenni. E per tutto quel tempo capita che
si chiedano perché non li affidano a una famiglia, visto che un nuovo padre e
una nuova madre si sono fatti avanti e non vedono l'ora di riempirli di affetto,
di amore. Può persino accadere che, una volta raggiunti i 18 anni, e uscito
dalla struttura in cui sei cresciuto, ti tocchi ritornare nella famiglia di
origine. Come se il tempo non fosse mai passato, o, peggio, inutilmente.
L'ESERCITO DI NESSUNO
In Italia ci sono oltre 20 mila
giovani - tra neonati, bambini e
ragazzi - ospitati da strutture di accoglienza. Sono istituti riservati a chi è
stato allontanato dai genitori naturali o non li ha proprio mai conosciuti. Solo
uno su cinque di questi ospiti viene assegnato (con adozione o affido) dai
tribunali alle famiglie che ne fanno richiesta (più di 10mila). È una media
bassissima, tra le più scarse d'Europa. Il motore che alimenta questa
"stranezza" italiana è una nebulosa dove le cause nobili lasciano il posto al
business e agli interessi di bottega. Ogni ospite che risiede in una
casa-famiglia
costa dai 70 ai 120 euro al giorno.
La retta agli istituti (sia religiosi sia laici) viene pagata dai Comuni. Soldi
pubblici, dunque. Erogati fino a quando il bambino resta "in casa".
Un giro d'affari che si aggira intorno a
1 miliardo di euro l'anno.
Tanto ricevono le oltre 1800
case famiglia italiane per mantenere le loro "quote" di minori. Ma un bambino
assegnato a una coppia è una retta in meno che entra nelle casse della comunità.
E così, purtroppo, si cerca di tenercelo il più a lungo possibile. La media è 3
anni. Un'eternità. Soprattutto se questo tempo sottratto alla vita familiare si
colloca nei primi anni di vita. Quelli della formazione, i più importanti per il
bambino.
Anche da qui si capisce
perché migliaia di coppie restano in biblica attesa che le pratiche per
l'adozione o l'affido si sblocchino. Poi ovviamente ci sono anche altri fattori,
la maggior parte dei quali legati alle lungaggini e alle complicazioni
burocratico-giudiziarie.
Da dove nasce questo
cortocircuito? Chi lucra sulla pelle di migliaia di bambini e adolescenti che
provengono da situazioni difficili, molto spesso drammatiche? "Il mondo degli
affidi e delle case famiglia sta attraversando un momento difficilissimo - dice
Lino D'Andrea, presidente di Arciragazzi, un'associazione nazionale che si
occupa di diritti dell'infanzia - . Ci sono situazioni che vanno ben oltre la
soglia della decenza e della dignità umana. Mi riferisco, in particolare, ai
casi più estremi. Che purtroppo sono diffusissimi. E cioè quei ragazzi
maggiorenni che usciti dagli istituti non sanno dove andare. Una cosa del genere
non dovrebbe essere tollerata. Perché è l'esatta negazione della funzione delle
case famiglia. La rappresentazione esatta di come l'obiettivo di una struttura
di accoglienza - che dovrebbe essere un luogo di transito, una specie di
"parcheggio" temporaneo in attesa dell'affido - può naufragare". A Napoli ci
sono due comunità di Arciragazzi. Altre tre erano a Palermo. Dopo mille
difficoltà, D'Andrea ha dovuto chiuderle. Perché? "Il Comune di Palermo non ha
mai pagato le rette (alla fine ammontavano a più di 750mila euro)" - spiega. In
pratica l'epilogo opposto rispetto a quanto accade in altri comuni e per altri
istituti, che campano proprio perché alimentati dal rubinetto dei fondi pubblici
(ultimamente un po' a secco per la mancanza di risorse dei Comuni). "I ragazzi
sono finiti tutti a casa mia. Uno l'ho anche preso in affidamento. L'alternativa
era la strada. Ma uno che
lavora coi ragazzi - con questi ragazzi - piuttosto che lasciarli in mezzo alla
strada se ne va lui di casa".
COME
PACCHI POSTALI
Il destino più comune per un
bambino che cresce in una casa famiglia è quello di diventare un pacco.
Sballottato di qua e di là, da una comunità all'altra. A volte i centri se li
contendono come merce preziosa. Perché con un minore "in casa" ogni giorno
piovono dal cielo rette da 70 euro a 120. Una "diaria" di cui si fa un utilizzo
non esattamente "pieno". Operatori laici o suore riescono a contenere le spese
facendole stare abbondantemente dentro la retta concessa dai Comuni. Quello che
resta diventa liquidità a disposizione della struttura (molte case famiglia
vengono mantenute con fondi messi a disposizione dal ministero della famiglia e
anche grazie a donazioni private).
Quante sono le case famiglia
in Italia? Chi controlla il loro operato, anche amministrativo? Le stime più
recenti parlano di oltre 1800 strutture distribuite da Nord a Sud. Con alcune
regioni - Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Sicilia - che raggiungono numeri più
consistenti (tra le 250 e le 300). Nonostante le casse (e i relativi
finanziamenti) di molti Comuni siano al verde, le case-famiglia sono in continuo
aumento. Il problema è che non esiste un monitoraggio. Si conosce pochissimo di
questi posti e di quello che accade all'interno. Numeri, casi, situazioni,
problemi, nella maggior parte dei casi vengono portati all'esterno solo grazie
alla sensibilità di qualche operatore e/o assistente sociale. Perché una banca
dati c'è ma è insufficiente e non esiste un vero censimento. Dopo che nel 2008 i
parlamentari Antonio Mazzocchi e Alessandra Mussolini (presidente della
commissione bicamerale per l'Infanzia) hanno lanciato un appello al ministro
della Giustizia, Angelino Alfano, e al presidente del consiglio Berlusconi, il
sottosegretario alla giustizia Casellati ha varato un database "all'italiana -
incalza Mussolini - perché riguarda solo le adozioni e non contempla anche i
casi, numerosissimi, di affido. La realtà è che aspettiamo ancora un censimento
vero e proprio e un adeguamento così come prevede la legge 149/2001"
(progressiva chiusura degli orfanotrofi, inserimento dei bambini nelle famiglie
attraverso lo strumento dell'affido, per arrivare gradualmente a un'adozione, o
all'inserimento dei minori nelle case famiglia).
L'ASSENZA DI CONTROLLI
E i controlli sui luoghi
dove i bambini vengono parcheggiati? Chi vigila sugli istituti che ospitano i
senza-famiglia? "Esistono centinaia di enti e associazioni no profit che hanno
il compito di rilevare la statistica esatta del numero dei bambini in attesa e
degli adottandi-affidandi. Ma nessuno è in grado di fornire numeri esatti".
Risultato: ancora oggi non esiste un monitoraggio attendibile. "Cerchiamo di
raccogliere più dati possibili - dice Francesca Coppini, dell'Istituto degli
innocenti di Firenze (tre strutture residenziali per piccoli da
0 a
6 anni, mamme e gestanti) - ma è tutt'altro che facile in mancanza di una vera
organizzazione da parte delle istituzioni".
Buio pesto anche sul fronte
delle verifiche. "Lo Stato paga le comunità ma nessuno chiede alla comunità una
giustifica delle spese - aggiunge Lino D'Andrea - . Sarebbe utile che ogni
casa-famiglia rendesse pubblica le modalità con cui vengono utilizzati i fondi:
quanto per il cibo, quanto per il vestiario, quanto per gli psicologi o le varie
attività. Il punto è che, in assenza di informazioni, i bambini stanno in questi
posti e nessuno gli fa fare niente. Non crescono, non vivono la vita, non
incontrano amici, non fanno sport né gite".
Il numero di bambini senza
famiglia è oscillato negli ultimi anni tra i 15mila e i 20mila. Oggi sembra
essersi assestato intorno alla sua punta massima. Ma il controllo dei "flussi" è
anche un problema legato alla sicurezza (adescamento, pedofilia).
C'è anche un problema di
competenze. Sull'infanzia ci sono troppe deleghe sparpagliate tra vari ministeri
(Pari opportunità, Lavoro, Giustizia, Gioventù) e anche senza portafogli. Con il
risultato che, non essendoci un unico soggetto che si occupi di infanzia
abbandonata, si finisce per trovarsi di fronte una nebulosa in mezzo alla quale
si capisce poco e niente.
Gli orfanotrofi non sono
ancora scomparsi del tutto. Alcuni sono stati convertiti in case-famiglia: anche
due o tre comunità nello stesso edificio. Una per piano. Poi le altre storture.
Nel libero mercato delle comunità per minori abbandonati, c'è chi, per essere
competitivo, abbatte la diaria giornaliera fino a ridurla a 30-40 euro.
Teoricamente più la abbassi e più bambini riesci a far confluire nella tua
struttura attraverso l'input dei servizi sociali che, a cascata, agiscono su
indicazione del tribunale.
Altra nota dolente, i
tribunali. Solo nel tribunale di Milano, ogni anno si accumulano 5mila fascicoli
relativi a famiglie disagiate con a carico almeno un minore. "I magistrati non
riescono a seguire la pratiche perché i ragazzi raramente sono seguiti dal
territorio di competenza - ragiona un operatore dell'infanzia - . La maggior
parte sono parcheggiati in un posto senza che nessuno lo segua davvero".
Le storie che vengono a
galla compongono un campionario da fare accapponare la pelle. Ma se si prova a
restare lucidi, si capisce come ogni vita congelata o sfilacciata, ogni odissea
che abbia per protagonista un bambino "di nessuno" si deposita sullo stesso
fondo di mala amministrazione. "Le case-famiglia sono una risorsa importante per
il reinserimento del minore - spiega l'avvocato Andrea Falcetta, di Roma - ma la
permanenza di un bambino va gestita con cura e deve rispondere a un unico
criterio: trovargli il prima possibile una collocazione familiare".
Paolo ha compiuto 18 anni
dentro un istituto dell'Aquila. La responsabile, una suora, quando Paolo era
adolescente, sostiene e favorisce per un anno gli incontri con una coppia con
due figli, di cui uno adottivo. A legame consolidato, la coppia si offre per
l'affidamento di Paolo, la suora cambia idea e il tribunale nega l'affidamento.
Ora, con la maggiore età, è la stessa famiglia ad occuparsi del ragazzo.
Brescia. Monica, 7 anni, subisce molestie dal padre; la mamma si rivolge al
tribunale e ai servizi sociali: i quali decidono di mettere la bambina in un
istituto punendo anche la madre. Una bambina di Lecce viene strappata ai
genitori accusati di non nutrirla abbastanza perché vegetariani. la famiglia
resta in una comunità per quasi un anno. la madre è autorizzata a stare con la
bambina nell'istituto di suore, per essere "rieducata" dagli assistenti sociali.
La signora testimonia che nei lunghi e numerosi colloqui con gli educatori non
si è mai parlato delle possibili problematiche della bambina ma le domande che
le venivano poste riguardavano solo i suoi rapporti sessuali con il marito.
Oggi, riottenuta la figlia dal tribunale, genitori e bambina sono emigrati
felicemente in Svizzera. Roma. Il tribunale affida Daria, 4 anni, ai servizi
sociali e questi la indirizzano in un "centro di aiuto" contro la volontà dei
genitori (gli esami escludono ogni tipo di violenza sulla bambina). Tuttavia
sono gli stessi genitori a chiedere all'Asl un'insegnante di sostegno visto il
lieve ritardo psichico di cui soffre la bambina. Ricusato
il consulente del tribunale e nominato uno nuovo, emerge infine che i problemi
di Daria erano dovuti ad una sofferenza da parto (mancanza di ossigeno per
qualche istante) e che dunque avevano natura medica e non psicologica: dopo 8
mesi di casa famiglia la bambina viene rimandata a casa dal tribunale. Bologna.
M. e C. sono sposati, abitano in periferia, redditi non fissi, lui operaio in
nero. Hanno un bimbo di 8 anni. Vengono dichiarati decaduti della potestà
genitoriale a causa di un procedimento nato dalla denuncia di due maestre: "Il
bambino sa troppe cose riguardo alla sessualità". Era accaduto che il bambino si
era alzato, era andato in salotto dove il padre stava guardando un film
pornografico. L'uomo, secondo gli assistenti sociali, aveva manifestato
un'assenza totale di autocritica rispetto all'episodio e si era sollevato da
ogni responsabilità; mentre davanti al giudice aveva ammesso "aveva solo2-3
anni, pensavo non capisse. Credo ora di avere sbagliato". Ricoverato in una
comunità, il bambino è stato poi dichiarato adottabile (è in attesa di una
famiglia da quasi due anni) nonostante la zia materna (sposata e con figli)
avesse presentato invano istanze per ottenerne l'affidamento e scongiurarne
l'adozione. Strappati agli affetti e spremuti nella crescita. Così va la vita
dei figli di nessuno.FOnte: www.repubblica.it
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