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E’ uscito di recente un libro del criminologo Luca Steffenoni, intitolato Presunto colpevole. La fobia del sesso e i tanti casi di malagiustizia (edizioni Chiarelettere, 2009). Steffenoni, un criminologo che si è occupato professionalmente anche di pedofilia, presenta un ritratto d’insieme sui processi per violenze su minori. Lo studio mostra una realtà di profonda ingiustizia, la cui responsabilità non si limita al solo ambito giudiziario, estendendosi anche alla società ed a sue associazioni: il risultato finale è una serie impressionante di pesanti condanne penali per abusi di minori inflitte ad innocenti.
Il criminologo parte da un dato
statistico inoppugnabile: ogni anno arrivano 5 mila denunce di
pedofilia da parte di scuole, centri d’ascolto, servizi sociali e Asl.
Tuttavia, i casi in cui si giunge ad una condanna sono in media annuale,
dal 1996 (anno della nuova legge contro la violenza sessuale) circa
850: soltanto il 17% dei casi denunciati si risolve in una sentenza di colpevolezza.
Esiste
quindi una netta discrepanza fra il numero di denunce e quello di
condanne, che induce a ritenere come la stragrande maggioranza dei casi
presunti di pedofilia siano del tutto immaginari, frutto di psicosi o vendette private.
Inoltre, lo Steffenoni ha buon gioco a dimostrare come buona parte
delle stesse sentenze di condanna siano scarsamente credibili e frutto
di errori giudiziari. “Presunto colpevole” individua nella sua analisi
tre gruppi di attori sociali coinvolti nella fabbricazione di accuse e
condanne per pedofilia, che possono essere così distinti: gli accusatori
veri e propri, le lobbies anti-violenza, la magistratura. All’interno
del processo che conduce a false accuse e condanne infondate, ciascuna
delle parti suddette interagisce con le altri, ma al contempo ha un suo
ruolo peculiare.
1. Cause delle false accuse: psicosi della pedofilia e vendette private
Le cause delle false accuse di pedofilia sono essenzialmente due: psicosi
ed interessi personali. Anzitutto, lo Steffenoni documenta una
mentalità diffusa che tende a vedere una forma di abuso sessuale anche
in gesti del tutto naturali e corretti (come lavare
proprio figlio o baciarlo), e che conduce con sé determinate ossessioni
basate su stereotipi, quali la nozione del “sacerdote
pedofilo”. Statistiche erronee se non falsificate diffuse dai media ed
un’attenzione morbosa riguardo a fatti di cronaca concernenti la
pedofilia conducono ad un clima isterico, in cui è sufficiente un
semplice sospetto od una voce per condurre ad una denuncia.
Inoltre, la grande maggioranza delle false accuse di pedofilia provengono da ex mogli e sono dovute a precisi interessi economici e familiari. Infatti, l’80%
di tutte le denunce di pedofilia provengono dall’ex coniuge, quasi
sempre la donna, e per di più, ad ulteriore testimonianza della loro
inconsistenza, diventano operative soltanto dopo che un tribunale civile
ha deciso provvedimenti giudicati dall’ex moglie quali insoddisfacenti. È
quello che può accadere con l’affido condiviso o la somma fissata per
l’assegno di mantenimento: per vendetta, o per meglio ottenere ciò che
desidera, l’ex moglie, o talvolta sua madre, accusa l’ex marito di
violenza sul figlio.
2. Il ruolo delle lobbies anti-violenza: ideologia femminista ed interessi economici
Le
due cause scatenanti le false accuse di pedofilia, la psicosi e
l’interesse personale, debbono la loro esistenza per la massima parte
alle attività di associazioni ed autentiche alle lobbies “anti-abuso” ed
“anti-violenza”. Esse contribuiscono a diffondere un timore irrazionale
riguardante presunte violenze domestiche, ed assieme a promuovere una
severità eccessiva e squilibrata nelle leggi e nei processi concernenti
casi di violenza sessuale.
La conseguenza di ciò è l’accettazione acritica
da parte di larga parte della popolazione d’affermazioni infondate
sulla diffusione massiccia della pedofilia, in realtà secondo Steffanoni molto
più rara di quanto non sostengano allarmistiche ed interessate
“statistiche” fornite da associazioni sedicenti “anti-violenza”, di
scarso o nullo contenuto scientifico. Inoltre, a causa del clima
formatosi e delle leggi vigenti, la facilità con cui le imputazioni sono
credute, e la durezza con cui i presunti colpevoli sono perseguiti,
rende agevole e proficuo rivolgere false accuse.
Queste
lobbies “anti-violenza” hanno una motivazione assieme ideologica ed
economica nella promozione delle proprie attività. Da una parte, esse
sono spesso fortemente condizionate dall’ideologia
femminista e quindi dai suoi stereotipi sulla presunta brutalità
maschile e dall’ossessione per i fenomeni di violenza domestica, che
viene enfatizzata ben oltre la sua effettiva dimensione. Dall’altra,
questa rete di centri di assistenza, società “no profit”, onlus, case di
accoglienza ecc. traggono i loro finanziamenti, per intero od in misura
essenziale, da enti pubblici. Tali associazioni ed istituti e le
persone che vi lavorano hanno quindi interesse diretto a
far sì che l’allarme sociale e l’attenzione giudiziaria verso la
pedofilia permangano elevati, affinché l’afflusso di fondi prosegua.
L’esempio
più tangibile di ciò è dato dai bambini assegnati in affidamento agli
orfanotrofi in seguito a denunce di pedofilia. Lo Steffenoni riporta la
testimonianza anonima di un prelato sulla loro gestione: “Meno del 10
per cento dei bambini torna in famiglia.
Anche in caso di assoluzione, psicologi e assistenti sociali fanno le barricate…
Motivo? Lei si immagina un ospedale senza malati?”
In
Italia esistono fra i 26mila e i 28mila bambini che vivono negli
istituti fino alla maggiore età, in buona misura separati dalle loro
famiglie per le cause più differenti, molto spesso discutibili od
inconsistenti. I finanziamenti pubblici spesi annualmente per ogni
bambino affidato ad un orfanotrofio sono di circa 200 euro al giorno,
cosicché ad un istituto per minori vengono corrisposti in media 75.000
euro all’anno per ogni bimbo. Il totale delle spese a tal fine destinate
da Stato, Regioni, Province, Comuni raggiunge la cifra di 1898 milioni
di euro all’anno. L’enormità di tale somma (quasi due miliardi di euro
all’anno) dà un’idea dei corrispettivi interessi economici coinvolti.
Accade
in tal modo che questo groviglio di associazioni, centri “anti-abuso”,
servizi di assistenza sociale ecc. appoggi e favorisca una sorta di
psicosi della pedofilia e la prosecuzione giudiziaria di denunce
inconsistenti. Un’altra testimonianza anonima riferita nel libro, questa
volta di un pediatra, denuncia il ruolo negativo delle lobbies
“anti-violenza” nella fabbricazione di denunce infondate: “Più conosci
il sistema, più lo eviti…Ho visto troppi pareri richiesti a centri
antiabuso finiti con i carabinieri sotto casa.”
3. La magistratura: presunzione di colpevolezza e cattiva organizzazione
Quando
la denuncia per pedofilia perviene alla magistratura, una serie di
fattori intervengono a distorcere il procedimento processuale ed a fare
dell’imputato un “presunto colpevole”.
In
primo luogo, la legislazione nazionale in materia di violenza sessuale è
formulata in maniera ambigua, cosicché l’abuso viene ad essere definito
non oggettivamente (in relazione ad un fatto obiettivo) ma
soggettivamente (in rapporto alla “sensazione” provata dalla presunta
“vittima”). In altri termini, la legge italiana sullo stupro può essere
interpretata ed applicata condannando per violenza carnale unicamente
sulla base delle dichiarazioni della “vittima”, ed anche per gesti e
comportamenti non attinenti direttamente alla sfera sessuale. La
situazione è infatti peggiorata quando, nel
1996 è entrata in vigore la nuova legge sulla violenza sessuale,
mediante l’introduzione di una norma che persegue atti in cui non esiste
contatto genitale, espressa in termini vaghi e generici, tale da
rendere qualificabile quale una “violenza” anche atti del
tutto innocenti. Scrive lo Steffanoni: “Ma è atto sessuale lasciare in
mutande i bimbi che si sono bagnati durante una festa? Fare il
bidet
ai figli? Osservare le parti intime se necessitano di cure? Fare la
doccia con il proprio bimbo? […] tutti questi fatti sono entrati nei
processi come sintomo di abuso e ritenuti spesso sufficienti a
giustificare condanne o l’allontanamento dei piccoli dai propri
genitori”.
In secondo luogo, il sistema
giudiziario è malamente organizzato nell’affrontare i casi di pedofilia.
Si ha una sovrapposizione di competenze fra il tribunale dei minori ed
il tribunale ordinario, con il prevalere del primo, l’accusa è molto
avvantaggiata rispetto alla difesa (il pm appartiene egli stesso alla
magistratura, il difensore invece è un avvocato), ed i consulenti ed i
periti a cui si ricorre provengono dalle lobbies “anti-violenza” di cui
si è detto.
L’esito di tutto ciò è che chi
viene accusato ha scarse possibilità di difesa, cosicché il processo ha
quasi sempre un esito scontato con la condanna dell’imputato. È infatti
l’accusato che deve dimostrare la propria innocenza, non l’accusa che
deve portare prove della sua colpevolezza, con il rovesciamento del
classico e razionale principio giuridico della presunzione d’innocenza:
senza prove contrarie, si è innocenti.
I processi spesso sono decisi unicamente sulla base di quanto sostengono i bambini, i quali sono oltretutto
molto più vulnerabili degli adulti a svariate forme di pressione,
compiute dalle varie parti coinvolte nel sostenere l’accusa. Il bimbo
nel processo di pedofilia è sovente subornato da un parente,
specialmente la madre, che vuole far condannare l’imputato e si serve
della fiducia del figlio e dello strettissimo rapporto d’affetto per
convincerlo a produrre affermazioni del cui significato effettivo può
persino non essere consapevole. Tale plagio del minore può anche
avvenire ad opera dello psicologo o dal “consulente” nominato dal
tribunale, membro di una qualche associazione od onlus “anti-violenza”.
Ad esempio, Salvatore Lucanto ha trascorso quasi tre anni in carcere per
aver violentato la figlia e la cugina, per poi venire assolto. L’accusa
si fondava interamente su alcuni disegni fatti dalla figlia durante le
sedute con una psicologa, e cadde dopo una dichiarazione della
bambina ai giudici: «La signora [la psicologa] mi ha detto che devo disegnare un fantasma e chiamarlo pisello».
La
stessa accusa esercita pressioni sul bambino e talora anche la madre,
se non è già l’accusatrice, affinché si abbia conferma dell’impianto
accusatorio. Agisce qui una tesi precostituito, secondo cui la vittima
dell’abuso non parla per timore, oppure perché non ha consapevolezza
della violenza subita. Conseguentemente a tale schema ideologico, per la
pubblica accusa il bambino è credibile unicamente se conferma la
denuncia, mentre invece risulta inattendibile qualora le contraddica. In
questa seconda eventualità, il pm ed i suoi “periti” provenienti dalle
lobbies anti-violenza tentano di persuadere il bambino all’ammissione di
ciò che desiderano sentirsi dire: Steffenoni riporta un caso in cui la
madre stessa era stata ricattata con la minaccia di vedersi sottratto il
figlio qualora non avesse accusato il padre.
4. I possibili rimedi suggeriti da Steffanoni
Lo soluzioni proposte
da Steffanoni sono articolate, e giustamente rivolte a ciascuno dei
vari attori del processo sopra delineato. In primo luogo, egli suggerisce d’evitare la propagazione di un allarme sociale esagerato nei confronti della pedofilia, chiarendo come si tratti di un fenomeno
molto meno diffuso di quanto comunemente non si creda. In secondo
luogo, il criminologo propone un rapporto dei tribunali e delle autorità
pubbliche ben diverso da quello attuale nei confronti delle varie
associazioni, onlus, centri sedicenti “anti-violenza”, che risultano
essere sovente ideologizzati ed economicamente interessati alla
diffusione di un clima da “caccia alle streghe” riguardo alla pedofilia. In
terzo luogo, risulta indispensabile ritornare al procedimento
processuale classico, che si basa sulla coincidenza delle prove,
abbandonando totalmente un’impostazione giuridica e
magistratuale nella quale l’imputato è “presunto colpevole”, e che per
di più si fonda su soggettivi e discutibili indizi di natura psicologica
anziché su riscontri obiettivamente determinati.
L’insegnamento del libro di Steffenoni è persino paradossale. La pedofilia appare essere relativamente rara,
mentre invece è molto più diffusa la violenza sui minori, e sugli
adulti, provocata dalla lotta alla pedofilia stessa. L’idea di
combattere la “violenza sessuale” finisce con il provocare un numero di
vittime di violenza, giudiziaria in questo caso, molto superiore a
quello degli stupri di bambini.
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