link: http://www.adiantum.it/public/3410-il-far-west-delle-case-famiglia--provvedimenti-frettolosi-e-controlli-assenti.asp
Vivono lontani dalla propria famiglia, sradicati spesso in tenera età e
a tempo indeterminato. È l’esercito dei quasi 30mila bambini e
adolescenti che, per effetto di un provvedimento giudiziario, finiscono
nelle case di famiglie affidatarie o nelle comunità. Con procedimenti
spesso frettolosi e privi di istruttoria, lasciati all’arbitrio di
giudici, periti e assistenti sociali.
Secondo l’indagine «Bambine e bambini temporaneamente fuori dalla
famiglia di origine » commissionata dal ministero del Welfare
all’Istituto degli Innocenti di Firenze, alla fine del 2010 in Italia
c’erano 14.528 minori in affidamento familiare e altri 14.781 in
comunità residenziale o casa famiglia. Con un aumento del 24% rispetto
al 1999. Il rapporto tace sul numero delle strutture, difficilmente
mappabile anche per la velocità con cui aprono e chiudono.
Una stima non recente parla di 1.800 centri con alcune Regioni (Emilia
Romagna, Lazio, Lombardia e Sicilia) che registrano una concentrazione
di 300 strutture. «In Italia non esiste alcun database per monitorare il
fenomeno del disagio minorile e delle strutture che ospitano i minori
allontanati », dice Vincenza Palmieri, presidente dell’Istituto
nazionale di pedagogia familiare e autrice con Antonio Guidi, ex
ministro della Famiglia, e l’avvocato Francesco Miraglia del volume “Mai
più un bambino” (Armando Editore). «La parola giusta è “reclusi” -
continua la pedagogista - perché quella nelle comunità è nella
maggioranza dei casi una reclusione ingiustificata, una frattura grave
tra il bambino e la famiglia».
Bando alle generalizzazioni, ripetono gli esperti, ricordando che ci
sono strutture che funzionano e operatori eccellenti. Però concordano su
due evidenze: la mancata presa in considerazione di soluzioni
alternative all’allontanamento e l’esistenza di un giro d’affari che fa
gola. I dati del ministero parlano chiaro: a fronte di un assegno medio
mensile di 404 euro concesso alle famiglie affidatarie, lo Stato eroga
alle comunità (che in base al Dpcm 308/2001 dovrebbero essere
autorizzate dalle Regioni ma che, in assenza di discipline regionali,
continuano a essere autorizzate dai Comuni) la bellezza di 79 euro al
giorno a bambino nel caso di retta giornaliera unica. Per le rette
differenziate, si va da 71 a 99 euro. Significa che ogni mese per
ciascun minore lo Stato paga dai 2.130 ai 2.970 euro. Un tesoretto che
forse potrebbe essere utilizzato per lavorare sulle famiglie d’origine,
soprattutto quelle in difficoltà economiche sempre più spesso colpite da
provvedimenti simili.
Ha molto da raccontare in proposito Francesco Morcavallo, già giudice
del Tribunale dei minori di Bologna, protagonista di un duro scontro con
i colleghi proprio sul “disinvolto” ricorso agli allontanamenti dei
bambini in uso nei tribunali minorili. «I giudici - rileva - dovrebbero
decidere sulla base di fatti provati, incompatibili con la permanenza
dei bambini nelle proprie famiglie. Fatti che determinano un pericolo
conclamato e gravissimo. Invece nella stragrande maggioranza di casi si
decide sulla base di giudizi di personalità dei genitori, spesso
superficiali, indotti da relazioni delle amministrazioni sociali quando
non dalle segnalazioni delle scuole o addirittura dei vigili urbani».
Morcavallo denuncia un difetto anche nelle procedure: «Nel 99% dei casi
le motivazioni dei giudici riproducono testualmente la domanda di
allontanamento, disponendolo senza istruttoria e fissando la prima
udienza solo dopo mesi». È così che i decreti provvisori - che
Morcavallo chiama «provvedimenti al buio» - diventano di fatto
definitivi. Comunque lunghi, troppo lunghi, per chi si ritrova
stritolato in questo meccanismo a pochi anni di vita o in piena
adolescenza. «Il business non torna», aggiunge Palmieri. «Si usano soldi
pubblici. Ma perché spendere di più e peggio con un risultato non
pedagogicamente ottimale? I dubbi vengono ». Alimentati anche
dall’assenza di controlli, come osserva Miraglia, esperto di diritto
minorile: «Il problema è chi controlla i controllori: nel fitto
reticolato di competenze che avvolge il mondo delle strutture per minori
non si capisce chi debba vigilare, la Regione, il Comune o alcune
commissioni locali istituite proprio per gestire le convenzioni. Io
stesso mi sono fatto portavoce di una richiesta di verifica su una
comunità e a distanza di mesi ancora sto aspettando una risposta».
È la cronaca, periodicamente, a squarciare il velo di questo far west.
Che nasconde abitudini inquietanti. «È prassi comune - racconta Palmieri
- sospendere la patria potestà dei genitori quando non vogliono che i
figli allontanati dalla famiglia assumano psicofarmaci. I bambini e i
ragazzi allontanati sono portatori di un disagio personale che non può e
non deve essere trattato come una malattia. Una mamma e un papà non
darebbero mai un farmaco a un bambino perché sbatte una porta o rompe un
giocattolo. La comunità scientifica si deve interrogare».
Gli esperti concordano: quasi tutti i bambini che oggi finiscono in una
struttura potrebbero essere aiutati diversamente. Con soluzioni diurne e
con un progetto educativo che riguardi l’intero nucleo familiare. «Il
metodo attuale - conclude Palmieri - non risolve alcun problema. Anzi:
costruisce non un futuro ma un curriculum di devianza».
L’attenzione è alta. Lo dimostra l’interrogazione presentata il 28
giugno da Roberta Angelilli (Ppe) alla Commissione di Bruxelles,
chiamata a chiarire se la situazione italiana viola la Carta dei diritti
fondamentali dell’Ue e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
«Allo stato attuale - scrive l’europarlamentare - non si riesce a
distinguere gli allontanamenti realmente necessari da quelli che
potrebbero essere evitati».
Fonte: IlSole24Ore Sanità del 30 luglio 2013
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