mercoledì 31 luglio 2013

Il far-West delle case famiglia



 link: http://www.adiantum.it/public/3410-il-far-west-delle-case-famiglia--provvedimenti-frettolosi-e-controlli-assenti.asp
 Vivono lontani dalla propria famiglia, sradicati spesso in tenera età e a tempo indeterminato. È l’esercito dei quasi 30mila bambini e adolescenti che, per effetto di un provvedimento giudiziario, finiscono nelle case di famiglie affidatarie o nelle comunità. Con procedimenti spesso frettolosi e privi di istruttoria, lasciati all’arbitrio di giudici, periti e assistenti sociali.
Secondo l’indagine «Bambine e bambini temporaneamente fuori dalla famiglia di origine » commissionata dal ministero del Welfare all’Istituto degli Innocenti di Firenze, alla fine del 2010 in Italia c’erano 14.528 minori in affidamento familiare e altri 14.781 in comunità residenziale o casa famiglia. Con un aumento del 24% rispetto al 1999. Il rapporto tace sul numero delle strutture, difficilmente mappabile anche per la velocità con cui aprono e chiudono.
Una stima non recente parla di 1.800 centri con alcune Regioni (Emilia Romagna, Lazio, Lombardia e Sicilia) che registrano una concentrazione di 300 strutture. «In Italia non esiste alcun database per monitorare il fenomeno del disagio minorile e delle strutture che ospitano i minori allontanati », dice Vincenza Palmieri, presidente dell’Istituto nazionale di pedagogia familiare e autrice con Antonio Guidi, ex ministro della Famiglia, e l’avvocato Francesco Miraglia del volume “Mai più un bambino” (Armando Editore). «La parola giusta è “reclusi” - continua la pedagogista - perché quella nelle comunità è nella maggioranza dei casi una reclusione ingiustificata, una frattura grave tra il bambino e la famiglia».
Bando alle generalizzazioni, ripetono gli esperti, ricordando che ci sono strutture che funzionano e operatori eccellenti. Però concordano su due evidenze: la mancata presa in considerazione di soluzioni alternative all’allontanamento e l’esistenza di un giro d’affari che fa gola. I dati del ministero parlano chiaro: a fronte di un assegno medio mensile di 404 euro concesso alle famiglie affidatarie, lo Stato eroga alle comunità (che in base al Dpcm 308/2001 dovrebbero essere autorizzate dalle Regioni ma che, in assenza di discipline regionali, continuano a essere autorizzate dai Comuni) la bellezza di 79 euro al giorno a bambino nel caso di retta giornaliera unica. Per le rette differenziate, si va da 71 a 99 euro. Significa che ogni mese per ciascun minore lo Stato paga dai 2.130 ai 2.970 euro. Un tesoretto che forse potrebbe essere utilizzato per lavorare sulle famiglie d’origine, soprattutto quelle in difficoltà economiche sempre più spesso colpite da provvedimenti simili.
Ha molto da raccontare in proposito Francesco Morcavallo, già giudice del Tribunale dei minori di Bologna, protagonista di un duro scontro con i colleghi proprio sul “disinvolto” ricorso agli allontanamenti dei bambini in uso nei tribunali minorili. «I giudici - rileva - dovrebbero decidere sulla base di fatti provati, incompatibili con la permanenza dei bambini nelle proprie famiglie. Fatti che determinano un pericolo conclamato e gravissimo. Invece nella stragrande maggioranza di casi si decide sulla base di giudizi di personalità dei genitori, spesso superficiali, indotti da relazioni delle amministrazioni sociali quando non dalle segnalazioni delle scuole o addirittura dei vigili urbani».
Morcavallo denuncia un difetto anche nelle procedure: «Nel 99% dei casi le motivazioni dei giudici riproducono testualmente la domanda di allontanamento, disponendolo senza istruttoria e fissando la prima udienza solo dopo mesi». È così che i decreti provvisori - che Morcavallo chiama «provvedimenti al buio» - diventano di fatto definitivi. Comunque lunghi, troppo lunghi, per chi si ritrova stritolato in questo meccanismo a pochi anni di vita o in piena adolescenza. «Il business non torna», aggiunge Palmieri. «Si usano soldi pubblici. Ma perché spendere di più e peggio con un risultato non pedagogicamente ottimale? I dubbi vengono ». Alimentati anche dall’assenza di controlli, come osserva Miraglia, esperto di diritto minorile: «Il problema è chi controlla i controllori: nel fitto reticolato di competenze che avvolge il mondo delle strutture per minori non si capisce chi debba vigilare, la Regione, il Comune o alcune commissioni locali istituite proprio per gestire le convenzioni. Io stesso mi sono fatto portavoce di una richiesta di verifica su una comunità e a distanza di mesi ancora sto aspettando una risposta».
È la cronaca, periodicamente, a squarciare il velo di questo far west. Che nasconde abitudini inquietanti. «È prassi comune - racconta Palmieri - sospendere la patria potestà dei genitori quando non vogliono che i figli allontanati dalla famiglia assumano psicofarmaci. I bambini e i ragazzi allontanati sono portatori di un disagio personale che non può e non deve essere trattato come una malattia. Una mamma e un papà non darebbero mai un farmaco a un bambino perché sbatte una porta o rompe un giocattolo. La comunità scientifica si deve interrogare».
Gli esperti concordano: quasi tutti i bambini che oggi finiscono in una struttura potrebbero essere aiutati diversamente. Con soluzioni diurne e con un progetto educativo che riguardi l’intero nucleo familiare. «Il metodo attuale - conclude Palmieri - non risolve alcun problema. Anzi: costruisce non un futuro ma un curriculum di devianza».
L’attenzione è alta. Lo dimostra l’interrogazione presentata il 28 giugno da Roberta Angelilli (Ppe) alla Commissione di Bruxelles, chiamata a chiarire se la situazione italiana viola la Carta dei diritti fondamentali dell’Ue e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. «Allo stato attuale - scrive l’europarlamentare - non si riesce a distinguere gli allontanamenti realmente necessari da quelli che potrebbero essere evitati».

Fonte: IlSole24Ore Sanità del 30 luglio 2013

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